“Pitture e immagini sono solo imitazioni di quegli dei che sono percepibili ai sensi esteriori; ma i nostri padri ritenevano che non fosse degno della riverenza dovuta a Dio farsi immagini o rappresentazioni del Dio invisibile” (Legatio ad Gaium 290). Queste parole di Filone d’Alessandria–il pensatore ebreo contemporaneo di Gesù che tentò di esprimere la fede ebraica nelle categorie del pensiero filosofico greco–sono chiara espressione del conflitto radicale tra parola e immagine che ha segnato e segna le grandi religioni monoteistiche. Non si tratta, ovviamente, di una carenza di creatività artistica, ma di un’affermazione propriamente teologica, su Dio, un’affermazione radicale e inequivocabilmente distintiva della fede giudaico-cristiana: Dio è l’invisibile; ancora di più, Dio è l’inimmaginabile. Non è l’uomo che “plasma” il suo Dio, ma Dio che plasma l’uomo. Non è l’uomo che “dipinge” l’immagine di Dio, ma Dio che fa l’uomo a sua immagine.
L’aniconicità della fede ebraica è testimoniata in vari modi nel testo biblico. Svetta, indubbiamente, il primo comandamento del decalogo con la sua radicale condanna dell’idolatria: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di quanto è lassù nel cielo, né di quanto è quaggiù sulla terra, né di quanto è nelle acque sotto la terra” (Es 20,4). Le immagini sacre vengono, anzi, trattate con pungente sarcasmo: “Hanno bocca e non parlano, hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non odono, hanno narici e non odorano. Le loro mani non palpano, i loro piedi non camminano; dalla loro gola non escono suoni!” (Sal 115,5-7).
L’aniconicità ebraica, tuttavia, è più un’affermazione di principio che una reale prassi. Qua e là il testo biblico si lascia sfuggire che i patriarchi erigevano stele, le lastre di pietra levigata che erano la rappresentazione simbolica del divino tipica della tradizione cultuale del levante. Tali accenni della Scrittura sono stati ampiamente confermati dalla testimonianza archeologica dei siti di epoca biblica. A Tel-Arad, ad esempio, capitale del distretto meridionale della Giudea, è stato rinvenuto un santuario di piccole dimensioni che era dedicato al culto di due divinità, due piccole stele, identificate dalle iscrizioni come YHWH–l’impronunciabile nome del Dio d’Israele–e la sua consorte Ashera. Il dato archeologico e gli indizi del testo biblico rivelano che l’aniconicità e la monolatria degli ebrei prima dell’esilio babilonese (nell’Epoca del Ferro, XII-VI sec. a.C.) furono più un’idealizzazione teologica delle generazioni successive che una realtà sul campo. Anche la stele, tuttavia, con l’assenza di qualsiasi raffigurazione dipinta o scolpita (tranne rarissimi casi, e non nella cultura propriamente israelitica) costituisce una rappresentazione della divinità in chiave puramente simbolica ed è, dunque, segno e non immagine della divinità.
Pur fedele all’ortodossia giudaica, è sempre Filone a fare un passo in avanti, dalla parola all’immagine. Nel suo tentativo di trasfondere la fede ebraica nella sofia greca, egli parla del logos–per i greci l’ordine razionale del cosmo–come di theios logos, parola divina, parola di Dio. Filone non identifica il logos con la divinità tout court, ma lo descrive come lo strumento di Dio, il mediatore tra Dio assolutamente trascendente, da un lato, e il cosmo e l’uomo, dall’altro. Tramite il logos Dio dà forma e ordine al cosmo, ma al tempo stesso il logos è avvocato e sommo sacerdote per l’uomo di fronte a Dio. Nell’interpretazione della creazione dell’uomo “a immagine di Dio” (letteralmente: “Secondo l’icona dell’essere/ente”), Filone afferma che “il logos è l’icona di Dio, per mezzo del quale tutto il cosmo è stato creato” (De Specialibus Legibus 1,81). Nonostante il linguaggio filoniano sia apparentemente così suggestivo, non ci si deve lasciar trarre in inganno. La sua concezione è ispirata al platonismo, e il logos di cui parla è la forma archetipa dell’universo, l’essenza ultima di ogni cosa e che dà forma a ogni cosa; in quando tale, esso è e rimane sempre radicalmente trascendente ogni cosa. Tuttavia, questa è l’innovazione dell’Alessandrino: Dio è ormai “immaginabile”, benché non ancora “raffigurabile”. Il logos, icona di Dio, è per lui puramente ideale e non materiale.
La rivelazione cristiana presenta affermazioni formidabilmente rassomiglianti dal punto di vista lessicale a quelle di Filone, ma gli attribuisce significati ben diversi. Paolo afferma: “Egli è l’immagine (icona) del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione” (Col 1,15). L’Apostolo si riferisce al logos, certo, ma al logos incarnato in una persona storica ben determinata, Gesù di Nazareth. Se per Filone il logos è una concezione ideale “immaginabile” attraverso un processo di astrazione dalla realtà verso il mondo divino, per il cristiano il percorso compiuto dal logos è opposto: dal mondo di Dio alla nostra umanissima realtà. Nel mistero dell’incarnazione, il logos si è fatto icona visibile, udibile e palpabile dell’invisibile, inudibile e impalpabile Dio.
Quello che era da principio, quello che noi abbiamo udito, quello che abbiamo veduto con i nostri occhi, quello che contemplammo e che le nostre mani toccarono del Verbo della vita–la vita infatti si manifestò, noi l’abbiamo veduta e di ciò diamo testimonianza e vi annunciamo la vita eterna, che era presso il Padre e che si manifestò a noi–quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunciamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. (1Gv 1,1-3)
In virtù dell’incarnazione, dunque, il Dio invisibile diviene “immaginabile” in senso pieno; non solo, cioè, concepibile intellettualmente, ma anche raffigurabile artisticamente. Il cristiano non ha più paura di raffigurare Dio, temendo di produrre un idolo inanimato, muto, sordo e cieco. Dio stesso, infatti, si è fatto icona viva, parlante, udente e vedente. Per questo ogni icona è sempre e necessariamente eloquente.
L’arte, dunque, non è più figlia illegittima della parola, destinata inesorabilmente al fallimento in un impertinente tentativo d’iconizzare l’impercepibile. Ormai l’arte è divenuta discepola della parola. Al pari della teologia essa legge la rivelazione e ne tenta un’esegesi; non primariamente con le categorie logiche del raziocinio, ma con quelle estetiche di ciò che è visto, udito e toccato. Come la teologia ardisce dire in parole umane il mistero indicibile di Dio, così l’arte osa mostrare il divino attraverso la lente della vicenda biblica, l’unica autentica trasparenza dell’invisibile che è data all’essere umano.
George Massinelli

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