L’attuale crisi sanitaria non è fenomeno accidentale, né improvviso, ma ha origini remote. Le sue radici affondano nel terreno complesso di una crisi integrale, che abbraccia non solo la dimensione naturale, ma anche quella sociale, antropologica e spirituale.
Tutto comincia da una mancanza di cura per la casa comune, la madre terra. Da decenni, anzi da secoli abbiamo smarrito l’attenzione per la cura dell’ambiente che ci circonda. Da secoli soffriamo di amnesia della meraviglia, dello stupore. Da secoli siamo concentrati sull’utile che satura i bisogni; sul pragmatico, che ottiene risultati tangibili e immediati. L’aria, l’acqua, la terra, sono diventati per noi un mero serbatoio di materie prime. Almeno a partire dalla rivoluzione industriale siamo stati predatori di risorse naturali, ritenendole “terra di conquista”, “terra di nessuno”. Abbiamo dimenticato che esse sono, invece, patrimonio comune, bene comune. E dopo averle dilapidate, abbiamo scaricato nei mari, nei fiumi, gli scarti di un sistema guidato dal mito dell’efficientismo, del pragmatismo, del consumismo. Consumatori, ci siamo disabituati al gusto, al sapore, allo “stare”, al convivio, alla festa.
Tutto comincia da una mancanza di cura per i luoghi del nostro abitare. Alveari creati per fornire alloggi agli schiavi dell’industria, gli agglomerati urbani ci hanno privato dell’odore della terra, del fresco refrigerio dell’acqua sorseggiata direttamente alla fonte, del tenue calore della luce primaverile, dell’iridescente assortimento dei tappeti floreali, della fragranza aromatica del sottobosco. Abbiamo dimenticato il ritmo delle stagioni: la lenta incubazione invernale, lo spumeggiante risveglio primaverile; l’attesa della maturazione estiva; la sazietà della raccolta autunnale.
Tutto comincia da una mancanza di cura e di vigilanza su un giardino, del quale avevamo la responsabilità della custodia. Ci era stato affidato come nostra abitazione, nostra casa comune, ideato a nostra misura, perché ammirandolo imparassimo i misteri del vivere, del gioire, del commuoverci, dell’accarezzare e anche del morire. Le cattedrali gotiche, contravvenendo ai bestiari del romanico, lo hanno rappresentato come annuncio del mondo nuovo, definitivo. Francesco d’Assisi lo ha cantato nel momento più critico della sua vita, riconoscendovi la carezza del Creatore. Lo ha ricantato nell’ora della morte, per annunciarla come sorella.
Tutto rischia di procedere con una mancanza di cura, anche in questi giorni, in cui usiamo un linguaggio militaresco, che separa, contrappone, esclude, omologa, toglie responsabilità, produce mera esecuzione, genera aggressività, diffidenza, sfiducia. Usiamo metafore dicotomiche allo scopo di semplificare, creare automatismi, esecuzione efficientista, col rischio di separare, anziché di unire, di diffidare anziché abbracciare. Anche in questi giorni la mancanza di cura trasforma l’isolamento in isolazionismo, che cova sospetto, ossessione “difensivistica”, disinteresse, ripiegamento, chiusura.
Tuttavia, proprio in questi giorni abbiamo assistito anche all’emergere dell’umano, della sensibilità verso i più fragili, della cura per i malati, della cura che accompagna verso un mondo nuovo.
Tutto, perciò, deve ricominciare dalla cura, che non è solo servizio per la guarigione dalla malattia, ma deve essere cambiamento/inversione dello scarto in risorsa. Non è solo attenzione al contagio. È attenzione all’aria che respiriamo, alla luce che ogni mattina ci accoglie, al cibo che ci alimenta, all’acqua che ci disseta, ai sapori che stimolano il nostro palato, ai suoni che sollevano la nostra mente verso il bello.
di Giuseppe Buffon
Fonte Osservatore Romano
Ecologia Giuseppe Buffon Laudato si’ Osservatore Romano Porziuncola
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