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Articolo di Giuseppe Notarstefano 12 Lug 2021

In cammino verso la Settimana Sociale dei cattolici italiani

“Il mondo esiste per tutti” (FT 118). La consapevolezza di appartenere ad un ecosistema dove “tutto è connesso” e si manifesta come un intreccio di complesse e delicate interazioni tra viventi e non viventi, ma dove ogni singolo gesto e azione dei viventi ha un impatto notevole nella possibilità di esistenza di tanti altri esseri viventi è per i credenti una fonte inesauribile di mistero, in primo luogo da contemplare e per cui ringraziare (LS 12), per poi prenderne consapevolmente parte assumendo in pienezza il compito di contribuire in modo armonioso a tale equilibrio. Scienza, arte, tecnica, poesia, musica e tutte le altre meravigliose espressioni della creatività umana possono agevolare il cammino dell’umanità in tale direzione, così come la politica può divenire uno strumento prezioso per dotarsi di regole e strumenti organizzativi di una maggiore possibile inclusione e partecipazione di ogni singola persona a tale processo.

Il “pianeta che speriamo”, tema che è stato posto al centro della 49ª Settimana Sociale dei cattolici in Italia in programma dal 21 al 24 ottobre a Taranto, corrisponde ad una visione profetica, annunciata dalle Scritture e accolta con grande gioia e passione dalla Chiesa che ne ha fatto un motivo di continuo impegno pastorale e sociale. Siamo consapevoli delle tante ferite e drammi che percorrono e attraversano le vie del mondo e le vite delle persone oggi, e pertanto in primo luogo è fondamentale condividere tali sofferenze che spesso diventano domande pressanti ed urgenti che invocano cambiamento, trasformazione e che “pretendono” conversione. La terribile pandemia, che dal 2020 ha causato tantissime morti e altrettante sofferenze sociali, è una grande provocazione per tutte le organizzazioni e le istituzioni nei diversi paesi e nelle diverse culture. La risposta stenta ad essere comune e condivisa, ed invece dovrebbe esserlo: perché “nessuno si può salvare da solo” e perché la connessione, accelerata e per certi versi strumentalizzata da un modello economicista di globalizzazione del mondo, ci costringe a fare i conti con il comune destino della terra e dell’umanità che vi abita.

Organizzare tale risposta è certamente compito di chi gestisce il potere e lo amministra per il bene di tutti, ma la politica in questi anni è stata debole, incapace di perseguire progetti a lungo termine e soprattutto di alimentare visioni elaborando idee e promuovendo discussioni e confronti tra le diverse parti. È prevalsa una idea di amministrazione “tecnocratica”, schiacciata sulle necessità pretese da una finanza dominante e prevalente sulle altre infrastrutture sociali: i beni sociali, comuni, immateriali che ispirano i criteri e i principi dell’ordine politico soccombono spesso sui beni materiali, economici, individuali che alimentano la ragion pratica dell’economia. Gli esempi sono diversi e danno voce ad un peana tragico del fallimento delle istituzioni e dei governi, da un lato schiacciati da un pesante debito pubblico a carico delle future generazioni e dall’altro incapaci di risolvere con regole condivise la “tragedia dei beni comuni”. Il percorso virtuoso tra il sentiero della prosperità privata, particolarmente perseguito dal mercato e dall’impresa, e quello della prosperità pubblica perseguito dal governo si sono sempre più disallineati, rendendo ancora più drammatica l’evidenza, ben nota al pensiero sociale cristiano, che il bene comune non si realizza attraverso la somma dei singoli beni individuali.

La storia non è finita con il crollo del muro di Berlino, come aveva preconizzato Fukuyama, e con l’affermazione del modello sociale ed economico occidentale e capitalistico, la cui diffusione anche nei sistemi post-comunisti non ha visto progredire la democrazia e la cultura dei diritti umani. Ne è sorta una nuova contrapposizione, differente da quella che era sorta con il compromesso di Yalta, caratterizzata da un conflitto interno al capitalismo, evidenziato ancora con più forza dalla geopolitica che sta emergendo con l’attuale pandemia come sottolinea Branko Milanovic nel suo ultimo libro Capitalismo contro capitalismo: «la questione di come si evolverà il capitalismo dipende dalla capacità del capitalismo liberal-meritocratico di muoversi verso uno stadio più avanzato, quello del capitalismo popolare ossia quello in cui si riduce fortemente la concentrazione finanziaria della ricchezza nonché la disuguaglianza interna dei redditi che dovrebbe essere promossa con una maggiore mobilità intergenerazionale dei redditi (Capitalismo contro capitalismo. La sfida che deciderà il nostro futuro, Laterza, Bari 2020, p.240).

Riaprire, dunque, il futuro è un compito sociale affidato a tutti, alla macro-politica e alle istituzioni che governano attraverso una prassi di soft-law tipica del modello del Washington Consensus (il G20, il G8…. ) ma anche alla società civile, ai movimenti sociali e alle realtà che animano le relazioni tra le persone come le comunità cristiane. C’è dunque una opportunità, in questo tempo, derivante dalla transizione in atto che sfida in particolare i credenti ad “organizzare la Speranza” come avrebbe detto don Tonino Bello. Di fronte alle grandi sfide contemporanee, che sembrano essere soprattutto nelle mani dei poteri e dei potenti, le persone rischiano di sentirsi schiacciate e marginalizzate, pertanto organizzare la speranza vuol dire “annunciare” la visione positiva sull’uomo, sulla sua capacità di bene (LS 13), e sulla antropologia cristiana che, se accolta, promuove un bene autentico e pieno, non egoistico e narcisistico ma intrinsecamente “sociale”; vuol dire altresì animare itinerari e percorsi generativi, che investono cioè sulle giovani generazioni (come nell’esperienza del Progetto Policoro della Chiesa Italiana o nel progetto Economy of Francesco voluto dal Pontefice); e vuol dire infine promuovere un dialogo sociale sulle grandi questioni non in astratto ma nella concretezza delle situazioni come si sta cercando di fare nel percorso della Settimana Sociale.

Non si tratta tanto di elaborare un progetto o un’agenda dei cattolici - o almeno non più solamente in questo tempo! - ma promuovere un discorso comune, partendo da ciò che può “accomunarci”: in tal senso la “questione” della sostenibilità o meglio della transizione ecologica appare come orizzonte e prospettiva di un agire intraprendente e dialogante dei cattolici italiani oggi in uno spazio pubblico fortemente diviso, anzi tribalizzato in “camere dell’eco” alimentate dalle tensioni esplosive che generano risposte solitarie e drammatiche o neo-corporative e violente, contribuendo alla disgregazione del corpo sociale. La sfida che ci pare di raccogliere, oltre a “declinare al futuro il tempo presente”, è quella di promuovere una nuova fase istituente nel Paese che sappia attingere alle buone pratiche “resilienti” della vita sociale per immaginare un confronto accogliente e fraterno. Per questo si è voluto insistere sul metodo, sulla necessità di sintonizzare e sincronizzare il comune cammino, stimolando il dialogo ad ogni livello della vita ecclesiale, perché attraverso le comunità e le organizzazioni ecclesiali si promuovesse un percorso di discernimento, a partire da una lettura condivisa delle attuali sfide, quelle grandi e globali come quelli “piccole” e locali che si richiamano a vicenda e che disegnano una trama di priorità su cui aiutare tutti a convergere.

La transizione ecologica promossa dal Nex Generation EU, e tradotta dai Recovery Plan dei diversi paesi europei, risponde ad un’esigenza di dare una architettura progettuale ed una direzione agli investimenti pubblici per il prossimo decennio: non basteranno solo i miliardi, ci vorranno atti amministrativi e azioni che influiscano nei meccanismi burocratici e nei processi decisionali, così come sarà necessario un investimento ancora più grande. Quello che viene dalle persone. Si parla - forse in modo spropositato - di ricostruzione o nuova ricostruzione paragonando l’attuale periodo a quello del secondo dopoguerra del secolo scorso, e forse in comune vi sono alcuni aspetti. Ma quello su cui bisogna agire di più è quello culturale ed educativo, che non può essere ridotto alla sola digitalizzazione ed inclusione di tutti in una nuova planetaria cittadinanza sociale, ma deve scommettere sul protagonismo delle nuove generazioni e sulla possibilità che esse hanno di animare la ricerca di nuovi e migliori assetti per la convivenza civile e democratica.

di Giuseppe Notarstefano
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