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La misericordia divina in Origene 07 Lug 2018

Niente è più dolce che il Padre di misericordia - 2^ parte

Continua l’approfondimento sulla vita di Origene. Nel primo articolo è stata fatta una introduzione generale della sua vita. Dopo questa panoramica tutt’altro che esaustiva ma piuttosto finalizzata a un inquadramento generale che faciliti una certa familiarizzazione con un autore forse non troppo conosciuto oppure oggetto di studio e ricerca solo per una nicchia di professionisti, passiamo a trattare uno dei temi centrali della riflessione origeniana, peraltro oggi di grande attualità: la misericordia.

Nota dominante del pensiero dell’Alessandrino, la misericordia Dei, declinata in maniera molteplice, come solo un esperto della sua levatura potrebbe fare, è disseminata qua e là nelle sue opere al fine di descrivere – in buona sostanza – il rapporto tra Dio e l’uomo, all’interno di quella dialettica misteriosa eppure innegabile tra la libertà della creatura umana e l’iniziativa provvidenziale di Dio (prónoia) che guida la storia con benevolenza, «re- stando egli sempre lo stesso, dispone le cose variabili (storia) e le governa conformemente alla loro natura» (CC 6,62). L’amore compassionevole di Dio trapunta, quindi, tutto il pensiero e le opere di Origene e qui di seguito, per congruenti motivi redazionali, ho fatto la scelta di coglierne alcuni tratti nella descrizione che egli fornisce del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ricavandola da una dottrina trinitaria ancora in fieri (bisognerà aspettare, a tal proposito, la sistematizzazione dei Padri Cappadoci del IV secolo) e non esente da problematicità, eppure già capace di regalarci il volto di un Dio che «è medico, è padre, è signore, ma non un signore duro, bensì dolce» (Hom. Ez. I,2).

Con ciò non intendo affermare che Origene scada mai n una visione filantropica, impersonale e paternalistica di Dio, ma anzi che ce ne offre un’immagine benevola e personale. Egli è «abisso di paternità» (Com. Gv II,2) non solo perché l’essere padre è uno degli “aspetti” (epínoiai) propri con cui si rivela a ogni uomo che, così, ha modo di riconoscersi “suo figlio”, ma anche perché, nell’Unigenito l’uomo può conoscere realmente il Padre, diventando fratello di colui che la Scrittura chiama anche Primogenito (cf. Rom. 8,29), nonché ricevendo la “figliolanza adottiva”. Quest’ultima condizione è precipuo regalo – scrive l’Alessandrino in un testo esegetico del racconto della “lavanda dei piedi” – di Gesù “Signore” che si china «su coloro che possono subire qualsiasi inquinamento perché hanno ancora lo spirito di servitù» (Com. Gv. XXXII,116), indicando con “inquinamento” la situazione di chi non è «ancora puro», perciò incapace ancora di camminare nella via che è Gesù stesso (cf. Com. Gv. XXXII,81).

Il Signore è più degli altri
L’amore del Dio che nessuno ha mai visto ma che il Figlio Unigenito ha rivelato (cf. Gv. 1,18), sfolgora in un atteggiamento disarmante di umiltà che marca una distinzione netta tra “il Signore” e “i signori” di questo mondo:

Riguardo al Salvatore, in quanto è Signore, è di per sé evidente che egli è da più degli altri signori, perché questi non vogliono che il servo diventi come il suo signore. Tale è invece l’atteggiamento e l’intento di colui che è il Figlio della bontà e dell’amore del Padre: in quanto egli è signore, infatti, ha fatto sì che i suoi servi potessero diventare come il loro Signore, allorché non avranno più lo spirito di servitù per essere di nuovo nella paura, ma riceveranno lo spirito di figli adottivi, nel quale esclamano: Abbà, Padre (Rom. 8,15: Com. Gv. XXX II,120-121).

Gesù, «Figlio della bontà e dell’amore del Padre», ci mostra altresì la compassione che Egli prova per l’umanità al punto da partecipare alla sofferenza di chi è immerso nel peccato ed è bisognoso di aiuto e salvezza. Origene arriva a dire, non senza audacia, che «colui che è impassibile patisce» (Com. Mt. X,23), colui cioè che non è mosso da passioni o sentimenti, capaci di renderlo mutevole (come gli sbalzi d’umore degli uomini, per intenderci), si fa muovere da sentimenti di compassione ad esempio di fronte a una folla «stanca e sfinita» (Mt. 9,36), prostrata sotto il giogo del peccato e assetata di perdono. Il catecheta alessandrino ci restituisce, così, il vero volto di Dio, lontano dal cosiddetto “dio dei filosofi”, cioè dalla nozione metafisica dell’impassibilità divina (altrove peraltro da lui stesso difesa in nome dell’assoluta trascendenza di Dio) postulante un Essere supremo che muove tutto senza essere mosso da nulla. E se non è mosso, figuriamoci commosso! Tuttavia, in una pagina del Commento a Ezechiele, Origene scrive:

Il Salvatore è disceso sulla terra mosso a pietà del genere umano, ha sofferto i nostri dolori prima ancora di patire la croce e degnarsi di assumere la nostra carne; se egli non avesse patito, non sarebbe venuto a trovarsi nella condizione della nostra vita di uomini. Prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato. Qual è questa passione che per noi ha sofferto? È la passione dell’amore (caritatis est passio: Hom. Ez. V I,6).

Il mistero della misericordia divina, della caritatis passio, ci permette di affacciarci sul cuore stesso di Dio che «prima ha patito, poi è disceso e si è mostrato», laddove noi forse ci saremmo aspettati che i patimenti fossero successivi alla sua discesa e alla sua manifestazione.

Nel tentativo di dire l’assoluta novità del Dio dei cristiani, rispetto al “già detto” dai filosofi, Origene parla, inoltre, della “festa di Dio” collegandola alla conversione dell’uomo: a Dio «è infatti di grande festa l’umana salvezza» (Hom. Num. 23,2) come parimenti è per Lui motivo di tristezza e di pianto il rifiuto della salvezza stessa, non certo per un nevrotico moto della psiche ma per un “sentimento d’amore”: «Quan- to è grande la bontà di Dio, che piange anche su coloro che l’hanno rinnegato. E ciò proviene anche da un sentimento d’amore. Nessuno, infatti, piange per qualcuno che si odia… Dio piange addirittura su Nabucodonosor» (Hom. Ez. XIII,2). Il riferimento ultimo al re babilonese, la cui vicenda si dispiega nell’AT, ci consente di notare come il mistero d’amore divino non si rivela solo nell’agire del Figlio fatto uomo, ma anche nell’atteggiamento intimo del Padre di cui Origene è come se volesse offrirci uno squarcio perché ne gustiamo l’insondabile delizia:

Persino il Padre, il Dio dell’universo, “pietoso e clemente” (Sal 103,8) e di gran benignità, non soffre anche lui in certo qual modo? Non sai che quando governa le cose umane, condivide le sofferenze degli uomini? Infatti “il Signore tuo Dio ha sopporta- to i tuoi costumi, come un uomo sopporta quelli di suo figlio” (Dt 1,31). Dio, quindi, prende i nostri costumi, come il Figlio di Dio porta le nostre sofferenze. Nemmeno il Padre è impassibile. Se lo preghiamo, prova pietà e misericordia, soffre di amore e s’immedesima nei sentimenti che non potrebbe avere, data la grandezza della sua natura, e per causa nostra sopporta i dolori degli uomini (Hom. Ez. V I,6).

Misericordia commovente
Non solo il Figlio, ma «nemmeno il Padre è impassibile», un’intuizione dalla portata rivoluzionaria ma che ha dovuto aspettare le catastrofi del XX secolo per riaffiorare alla coscienza della Chiesa che, pur operando le dovute precisazioni e muovendosi con opportuna cautela, l’ha accolta e riproposta nel magistero di san Giovanni Paolo II. Egli scrisse l’enciclica dedicata allo Spirito Santo nella vita del mondo e della Chiesa, Dominum et vivificantem (1986), anche in obbedienza all’auspicio del beato Paolo VI che aveva detto: «alla cristologia e specialmente all’ecclesiologia del Concilio deve succedere uno studio nuovo ed un culto nuovo sullo Spirito Santo, proprio come complemento immancabile all’insegnamento conciliare» (DeV 2). Nel l’enciclica Giovanni Paolo II mette in luce l’azione dello Spirito quale «amore del Padre e del Figlio e, come tale, il dono trinitario e, al tempo stesso, l’eterna fonte di ogni elargizione divina al creato». Tale altissimi donum Dei spesso è rifiutato dall’uomo a motivo del peccato, di fronte al quale, fatta salva la sua perfezione per la quale non prova dolore causato da ferite o carenze di sorta, Dio reagisce sdegnandosi («Sono pentito di aver fatto l’uomo») ma soprattutto – ed è questo a rivelarne meglio le “profondità” – ponendosi come «un Padre, che prova compassione per l’uomo, quasi condividendo il suo dolore» (DeV 39). Tale dolore è “indicibile e imperscrutabile”, ma parimenti innegabile e, soprattutto, rivelatore di una misericordia commovente, “personificata e attuata in modo trascendente” nello Spirito (cf. DeV 39).

Il venire a contatto con tale misericordia è, del resto, possibile grazie all’azione dello Spirito Santo che per il maestro alessandrino sta all’origine delle Sacre Scritture, le quali, grazie a Lui, diventano accessibili ai credenti, rivelando il tesoro in esse nascosto, Cristo stesso, e aiutandoli a conformarsi al mistero che via via disvela.

Tra i vari appellativi pneumatologici, uno evidenzia in modo particolare la divina “indole benevola”, quello di “Paraclito”. Di matrice giovannea (cf. Gv. 14,16.26), lo Spirito Santo Paraclito non soltanto introduce il credente nei “misteri ineffabili di Dio” (2 Cor. 12,4), ma gli «ottiene consolazione» (Rom. 15,4) e laetitia cordis (Sal. 103,15). I “misteri ineffabili” svelati sono, in sostanza, sia quelli concernenti il mistero della Trinità, nella fede della quale gli Apostoli sarebbero stati illuminati dal Paraclito effuso nelle loro anime (cf. De Princ. II,7,3), sia il mistero della storia che a quello del Dio Trino è legato da “parentela” (Origene ne parla in termini di synghéneia in De Princ. IV,2,7), motivo quest’ultimo di profonda consolazione:

Quando per rivelazione dello Spirito uno avrà conosciuto per- ché e in qual modo avvengono tutte le cose, la sua anima non potrà più essere turbata o rattristata da alcuna cosa; né alcuna cosa lo potrà spaventare, perché aderendo alla parola e alla sapienza di Dio dice “Signore Gesù” nello Spirito Santo (De Princ. I I ,7,4).

Non solo, accanto alla consolazione il credente otterrà quella gioia del cuore riservata a chi può scoprire dovunque nelle Scritture, anche all’interno dei passi più oscuri, l’annuncio della misericordia di Dio e della sua volontà di salvezza, per cogliere così che «il Dio della legge e dei profeti è non solo giusto ma buono» (Com. Rom. II,4). Se quest’ultima affermazione è vera in chiave antimarcionita (usata, cioè, da Origene per combattere i seguaci di Marcione che aveva postulato una netta separazione tra il Dio giusto dell’AT e il Dio buono del NT), è ancor più vero in merito al tema della misericordia di Dio Padre che si rivela nel Figlio, chinandosi sugli uomini oppressi dal peccato, mediante l’azione consolatrice dello Spirito Santo. Quest’ultima si dispiega attraverso la synkatábasis o symperiphorá, la “condiscendenza” di Dio Padre il quale, per primo, si muove per andare incontro ai figli, manifestando loro in questo modo la sua bontà (cf. Hom Lc XXXIV,3-4). Scrive altrove:

Che cosa di più dolce…d’un vero padre? Chi è dunque e come conoscerlo? È giusto attribuire a lui solo il nome di Dio, o quello di creatore, o quello di Padre, oppure tutt’e tre? Dio a motivo della sua potenza, creatore per la sua attività, padre a motivo del bene (Corp. Herm. 14,4).

Se, dunque, Dio è “padre”, non può che essere “bene” che si riversa sui figli, stabilendo con essi un rapporto che si compirà alla fine del tempo quando l’umanità starà di fronte a un Dio che non avrà le sembianze di un giudice o signore, ma solo di Padre (cf. Com. Gv. XX,47ss).

E così Origene si pone in linea con la tradizione patristica che lo ha preceduto, per esempio con Ireneo di Lione, il quale, per esprimere le tappe successive della rivelazione di Dio, scrive in modo suggestivo che Egli è «visto attraverso lo Spirito profeticamente, contemplato attraverso il Figlio filialmente, veduto nel regno dei cieli paternalmente» (Adv. haer. I V,20,5).

Alla luce di tutto ciò forse si può concludere che parla- re di misericordia in Origene, vuol dire affermare che Dio non è soltanto Padre, ma è innanzitutto Padre e, come tale, è “radice e fonte” (Com. Gv. f r. 69), echi, questi, non soltanto di reminiscenze veterotestamentarie, ma soprattutto della ricorrente e ricca concezione che il NT offre del «Padre del Signore nostro Gesù Cristo e Padre nostro», nonché dell’esperienza viva e calorosa del suo già menzionato padre, Leonida, martirizzato per la fede nel 202, quando Origene aveva circa 17 anni.

In definitiva, prendendo a prestito le splendide parole con cui Teofilo di Antiochia aveva già tentato di spiegare al pagano Autolico, che adorava e vantava gli idoli muti, fermi e “opera delle mani dell’uomo” il Pater misericordiae in cui il cristiano crede, lo stesso Dio di Ireneo, di Origene, di Agostino, di noi battezzati del XXI seco- lo – possiamo concludere che: «se lo chiamo Padre, dico che Lui è tutto» (Ad Aut. I,3).

In PAROLADEI PADRI, a cura di Graziano Maria Malgeri
dal n. 1/2018 della Rivista Porziuncola



Catechesi Graziano Malgeri Misericordia Rivista Porziuncola

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