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«Siamo rimasti orfani, senza padre, privati della luce dei nostri occhi» 23 Mag 2020

Orfani che piangono! Figli che ricominciano!

«Siamo rimasti orfani, senza padre (Lam 5,3), privati della luce dei nostri occhi» (Lettera di frate Elia,2: FF 306). Sono queste le parole del laconico annuncio con il quale frate Elia dà notizia della morte di Francesco d’Assisi. I frati si scoprono improvvisamente orfani del loro padre, sperimentano il doloroso distacco da colui che era stato la guida, il maestro, l’esempio, il modello. Questo accade tutte le volte in cui qualcuno che amiamo ci lascia: ci scopriamo sempre impreparati a quell’ultimo saluto, a quello strappo lacerante; sembra manchi il respiro, sembra manchi la luce, sembra manchi la direzione; sembra manchi tutto, quando a lasciarci è il padre, la madre, un fratello, un amico, qualcuno che Dio ha messo come un faro di speranza e di gioia sulla nostra strada spesso avvolta dalla penombra. È sempre troppo presto per lasciare andare chi amiamo, ci sono ancora tante parole da dire e da ascoltare, abbracci e baci da scambiare. Quando a morire è un padre o una madre si farebbe di tutto pur di risentire anche solo per un attimo il contatto con quella pelle incisa dal tempo, quel profumo inconfondibile, il suono di quella voce. Anche se il nostro volto comincia a portare i segni delle prime rughe e il nostro capo si colora di fili bianchi, vorremmo ritornare bambini e accoccolarci ancora una volta a quel seno e risalire su quelle spalle che ci facevano sentire invincibili giganti. A loro modo i frati, specialmente i primi compagni di Francesco, si sentivano così il 3 ottobre 1226: improvvisamente orfani, bambini costretti a diventare grandi, costretti ad abitare lo spazio del dolore, del lutto, della perdita; con la sensazione e la tentazione di essere ricchi di passato e poveri di futuro. 

Tuttavia, se ci si lascia imprigionare dal passato, dal rimpianto, dalla nostalgia, si rimane orfani per sempre a contemplare le proprie perdite; occorre riannodare i fili con le ultime parole e gli ultimi gesti di chi ci ha lasciato per tornare a essere figli ricchi di futuro.

Bonaventura da Bagnoregio nella sua Leggenda Maggiore ci consegna proprio una preziosa eredità fatta di gesti e di parole che Francesco a lasciato a quei frati disorientati affinché non si sentissero orfani, ma continuassero a sentirsi figli e fratelli: «Confitto nella carne e nello spirito con Cristo, sentiva la stessa sete di Cristo crocifisso per la salvezza degli uomini: Incominciamo, fratelli, a servire il Signore Dio nostro, perché finora poco abbiamo progredito. Ardeva di un grande desiderio di ritornare all’umiltà degli inizi, per servire, come da principio, i lebbrosi» (LMag XIV,1: FF 1237).

Il primo gesto che Francesco lascia in eredità è in realtà il gesto che Gesù ha impresso sul corpo di Francesco: le sue stimmate, i segni di quell’amore ardente che Francesco ha vissuto e donato fino alla fine. Non ci lascia mai orfani colui o colei che muore amando, vive e rivive in ogni gesto di misericordia, di perdono, di amicizia, di tenerezza, in ogni gesto con cui si riversa amore su ciò che non è amabile, fiducia su chi arranca, sostegno per chi non ce la fa. Incominciamo a servire: Francesco è alla fine della vita, ha dato tutto, eppure si sente come chi ancora deve cominciare, perché ad amare servendo si ricomincia ogni giorno, ad ogni bivio che la vita ci mette davanti, con ogni persona che siamo chiamati a far diventare fratello. «Servire» è il verbo che permette di uscire dalla condizione di orfani e ci immette in quella di figli, come Gesù che diventa figlio servendo, lavando i piedi, lasciandosi inchiodare alla croce.

Prosegue Bonaventura: «Perché non crescesse in lui il cumulo dei meriti, diceva: Ti ringrazio, Signore Dio, per tutti questi miei dolori e ti prego, o Signore mio, di darmene cento volte di più, se così ti piace. Io sarò contentissimo se tu mi affliggerai e non mi risparmierai il dolore, perché adempiere la tua volontà e per me consolazione sovrappiena» (LMag XIV,2, FF 1238).

Francesco ringrazia per i dolori che attraversano come lame affilate il suo corpo, non perché ama il dolore, lui rimane l’uomo della letizia e del canto, ma perché ogni stilla di dolore lo avvicina ai dolori di Cristo, ogni fremito di dolore si trasforma in un sussulto di amore. Il dolore per Francesco è esperienza di intimità nuziale con Gesù povero e crocifisso. Il dolore è per lui occasione per approfondire l’umanità e l’offerta di Cristo. Più Francesco entra nel dolore più entra nella carne di Gesù, e di quella carne diventa intima trasparenza. E il dolore diventa canto, poesia, danza, fine e preziosa tessitura della carne di Francesco con la carne di Gesù, traboccante consolazione. Francesco muore come tutte le madri, di parto, dando alla luce nuovamente i suoi figli e fratelli. Da orfani si ritorna figli guardando a quel dolore portato con dignità e laboriosità, con fede e generoso servizio, accompagnato dalla preghiera, approfondendo dolore e amore di Gesù. 

Conclude il biografo: «Disteso a terra, dopo aver deposto la veste di sacco, sollevò la faccia la cielo… mentre con la mano sinistra copriva la ferita del fianco destro… disse ai frati: Io ho fatto la mia parte, la vostra, Cristo, ve la insegni» (LMag XIV,3: FF 1239).

Quella di Francesco è nudità arresa alla terra ma con lo sguardo proteso alla meta finale, nudità povera di tutto ma ricca di Cielo; nudità incisa dalla croce, nudità a cuore aperto che quasi con pudore viene protetto. Nudità sulla quale l’amore ha scritto una partitura mirabile: Io ho fatto la mia parte, la vostra, Cristo, ve la insegni! Francesco lascia ai suoi figli un’opera incompiuta, da proseguire, con la quale coinvolgersi ancora; un’opera che non muore con lui, un’opera da far vivere ogni giorno con il servizio, con la perseveranza, con l’ascolto della volontà e della parola di Dio. L’amore è sempre un’opera incompiuta da proseguire con la consapevolezza che non lo sarà mai pienamente, almeno qui sulla terra.

E allora se anche noi abbiamo vissuto o stiamo vivendo in questo momento il dolore per la perdita di chi amiamo, torniamo alle ultime parole che ci sono state dette e agli ultimi gesti che abbiamo visto, che sono la nostra vera e più grande eredità, in essi vi è una potenza e una ricchezza infinita, capace di strapparci dal lamento dell’orfani e immetterci nella gioia dei figli.



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