“Noi invece annunciamo Cristo crocifisso:
scandalo per i Giudei e stoltezza per i pagani;
ma per coloro che sono chiamati,
sia Giudei che Greci,
Cristo è potenza di Dio e sapienza di Dio.”
(1Cor 1,23-24)
In quanti modi è possibile leggere la croce? San Paolo scrivendo ai Corinzi, come indicato nel versetto sopra riportato, propone due alternative: scandalo, ovvero inciampo, impedimento, danno … morte, oppure potenza, ovvero occasione, possibilità, vantaggio … vita! Dunque la croce può essere stoltezza e fallimento, oppure sapienza e vittoria.
Ma a dirla tutta, agli occhi degli uomini la croce appare sempre e solo in un modo, in quell’unica alternativa che meno piace di quelle presentate da Paolo.
Certo, il buon cristiano “devoto” sa che nella croce di Cristo trova la salvezza,che attraverso quel passaggio di Cristo sul legno, la sua Pasqua che include quel Venerdì Santo non come un semplice accidente, o incidente, ottiene redenzione, il riscatto della propria vita. Il problema se questa conoscenza resta teoria, cosa conosciuta e poco o niente vissuta: finché si tratta della sua croce, ok, ma guai se quella o un’altra croce dovesse intercettare la mia vita!
“Ma Lui è Dio!” è l’obiezione spontanea … Non accettare pienamente l’umanità di Cristo, seppure in modo inconsapevole, è l’espediente maggiormente adottato per scaricarsi della responsabilità di chiedersi se ci può essere una lettura alternativa alla croce, ed eventualmente farla propria.
Ecco allora che viene difficile comprendere come mai Paolo abbia posto un’alternativa a quell’unica definizione che è sotto gli occhi di tutti. Ma in duemila anni di cristianesimo in tanti hanno osato non solo ammettere un modo diverso di leggere la croce, ma addirittura di optare per quello meno popolare, come ad esempio il nostro Francesco d’Assisi che esclamò, nei momenti di maggior sofferenza fisica, quando, ormai quasi cieco e con il corpo piagato, si avviava a concludere la sua vita terrena: “Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è diletto” (FF 1897). E ancora, Santa Teresa Benedetta della Croce, una “ricercatrice” anomala dedita ad indagare, conoscere e amare la “Scienza della Croce”.
Questi nostri fratelli, “semplici uomini” come ciascuno di noi, ci interrogano oggi, non solo perché celebriamo – come ogni anno il 14 settembre – l’esaltazione della Santa Croce, ma perché ne va della nostra vita, della qualità di quella attuale e dell’esito eterno verso cui la dirigiamo. Cosa hanno visto che noi non vediamo?
Sembrano dirci della miopia umana, che non sa vedere molto più in là del proprio naso … si, forse distingue oggetti e persone nel raggio di qualche metro, ma chi può affermare di scandire l’infinito? Ne consegue che tutto ciò che diciamo o pensiamo è limitato a questo micro cosmo in cui ciascuno vive, una bolla di universo che però non è l’universo. La fede è il paio di occhiali che allarga l’orizzonte su cui vediamo compiersi la nostra vita, che cura la nostra miopia, aumenta lo spazio vitale nella misura in cui, fidandoci e affidandoci, scegliamo di guardare con gli occhi di Colui che “sa come va a finire”.
La fede non è procedere con i paraocchi, ma vedere meglio le cose e le persone che ci circondano, perché è vederli come li vede Dio, l’Eterno. La fede dona uno sguardo nuovo su noi stessi, sui nostri limiti e sul nostro peccato. A questo proposito pongo una domanda simile a quella fatta in apertura di questo testo: come va letto il peccato? Qual è il male che provoca? Dopo averlo commesso di cosa dovremmo pentirci? È ancora una questione degli occhi con cui si sceglie di vedere: il peccato visto con gli occhi dell’uomo è una offesa a Dio e, ancor più, un fallimento personale, inteso come ferita all’io che non è stato in grado di fare una certa cosa o di farla in un certo modo. Senza escludere questi aspetti, visto con gli occhi di Dio il peccato è soprattutto il male che l’uomo fa a se stesso separandosi dall’unico che gli da vita e sempre può e vuole dargliene in abbondanza!
La Croce, allora, è la manifestazione dell’amore di Dio che sceglie liberamente e gratuitamente di colmare quella distanza, dovuta alla disobbedienza, alla sfiducia, e quindi al peccato, posta tra la creatura e il Creatore, l’uomo ed il datore di Vita. Distanza che l’uomo mai avrebbe potuto colmare e mai potrebbe farlo: l’uomo non possiede ma riceve la Vita.
Ora, se un cristiano sa di vivere di tutto questo, la teoria si faccia pratica, la Parola s’incarni, si accolga la croce, per quello che a ciascuno è chiesto, per dare ai nostri “persecutori” quell’amore che Dio da a ciascuno di noi, per vedere quei fratelli – come Dio vede noi –come “persecutori di se stessi”, desiderare la loro salvezza e non la dannazione. Noi cristiani ci nutriamo di quel Corpo spezzato affinché esprimiamo ed accresciamo la Comunione con Cristo crocifisso, morto e risorto. Questo vuole fare di noi lo Spirito Santo: conformarci a Cristo, renderci figli nel Figlio.
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