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Riflessione del prof. Marcello Buscemi, ofm sul lavoro in San Paolo 15 Gen 2019

Fate tutto per la gloria di Dio

Non si trova in San Paolo, come anche nei Vangeli, una trattazione unitaria e sistematica del «lavoro», ma si possono trovare dei testi che parlano di questa realtà del vivere umano. Si possono trovare termini e pericope (cfr Ef 6,5-9; Col 3,22-25) che ci permettono di delineare il pensiero di Paolo sul “lavoro” e ci fanno scoprire anche le radici culturali di certe affermazioni dell’apostolo: il suo impegno a “lavorare con le proprie mani” (1Tes 2,9; 4,11; 2Tes 3,7-9; 1Cor 4,12; Ef 4,28; cfr anche At 20,34), il lavoro considerato come “rimedio contro l’ozio” (2Tes 3,7.10- 11), come “servizio a Cristo e ai fratelli” (Col 3,17.22-24) e come “rendimento di grazie a Dio” (1Cor 1Cor 10,31; Col 3,17). In base a questi testi, il mio contributo metterà in evidenza le linee portanti del pensiero di Paolo sul «lavoro manuale», sul «lavoro apostolico» e sulla sua concezione teologico-spirituale del lavoro.

Lavorare con le proprie mani
In 1Tes 2,9, Paolo, ricordando quale è stata la sua fatica e il suo travaglio a Tessalonica, scrive: “lavorando giorno e notte per non essere di peso ad alcuno, vi abbiamo annunziato il vangelo di Dio”. Il suo lavoro era quello del «costruttore di tende» e che a Corinto trovò lavoro presso Aquila e Priscilla, anch’essi “costruttori di tende” (At 18,3). Così, per comprendere meglio il pensiero di Paolo sul lavoro, ci interesseremo della terminologia del lavoro nei suoi scritti, della matrice culturale di riferimento e di alcuni suoi testi più significativi sul lavoro.

 La terminologia del lavoro
Paolo usa quattro termini per indicare il lavoro sia nella sua dimensione fisico- manuale che nella sua dimensione esistenziale. Usa ποιέω circa 82 volte con il senso generale e immediato di «fare» e lo applica all’agire divino: “O uomo, tu chi sei per disputare con Dio? Oserà forse dire il vaso plasmato a colui che lo plasmò: «Perché mi hai fatto così?». Forse il vasaio non è padrone dell’argilla, per fare con la medesima pasta un vaso per uso nobile e uno per uso volgare?” (Rom 9,21) che per l’agire umano: “E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre” (Col 3,17); “E non stanchiamoci di fare il bene; se infatti non desistiamo, a suo tempo mieteremo” (Gal 6,9). Spesso lo usa anche in senso metaforico per esprimere concetti teologici, che non riguardano il “lavoro umano”. Il verbo πράσσω, usato solo 18 volte, indica il «fare» in senso prolungato e mirante ad uno scopo: “il praticare” 2; spesso ha senso metaforico etico. Il verbo ἐργάζομαι, derivato da ἔργον,  “operare”, indica una “attività concreta” ed è applicabile sia a Dio (cfr Gen 2,2) che all’uomo. È il verbo che più di ogni altro si riferisce al “lavoro manuale” e un po’ meno a quello “intellettuale”. Assume una chiara connotazione etico-sociale, che contribuisce al miglioramento della propria società, ma anche una connotazione religiosa: è Dio che opera tutto in tutti (1Cor 12,6). Paolo usa questo termine 18 volte e gli dà diversi sensi: a) il senso proprio di “lavorare” (Rom 4,4; 13,10; 1Cor 9,6; Col 3,23; 1Tes 2,9; 2Tes 3,8.10.11.12), anzi spesso vi aggiunge il dativo di mezzo: «con le proprie mani»: 1Cor 4,12; Ef 4,28; 1Tes 4,11; b) il senso etico di “compiere il bene”: Rom 2,10; 4,5; 2Cor 7,10; Gal 6,10; c) il senso religioso: 1Cor 9,13; 12,6; 16,10. Il verbo κοπιάω, derivato da κόπος: “fatica”, ha il senso di “faticare”, “affaticarsi”. Accentua il dato caratteristico del lavoro umano: “la fatica”. Il suo senso è quello di “stancarsi, affaticarsi”, sia in senso fisico che metaforico. Il termine è usato 16 volte in Paolo, che gli dà il senso di un lavoro faticoso, svolto con le proprie mani in 1Cor 4,12; Ef 4,28; più spesso indica le fatiche apostoliche di Paolo e dei suoi collaboratori in Rom 16,6; 16,12; 1Cor 15,10; 16,16; Gal 4,11; Fil 2,16; Col 1,29; 1Tes 5,12.

La matrice giudaica del lavoro manuale
Tale analisi lessicografica è interessante, ma da sola non ci fa comprendere pienamente il pensiero di Paolo sul “lavoro”. Egli è un giudeo, che, anche se è vissuto nella Diaspora del mondo ellenistico, ha ricevuto una formazione ispirata al pensiero biblico-sapienziale e a quello giudaico-rabbinico. Secondo Gen 2,15, il “lavoro manuale” è voluto da Dio. Anzi, secondo Is 28,26.39, è Dio stesso che ha insegnato agli uomini come coltivare con perizia la terra. Per questo, Dt 2,7 si rivolge a Israele dicendo: “Dio ti ha benedetto in ogni lavoro delle tue mani” (cfr anche Dt 14,29; 15,10; Dt 16,15). Non solo i testi biblici stanno alla base di una mentalità totalmente diversa da quella greco-romana, che preferiva l’otium al negotium, ma anche la tradizione giudaico-rabbinica che ha formato il pensiero di Paolo. In Tosephta Qiddushim 1,11 sta scritto: “Ogni uomo è obbligato a insegnare a suo figlio un mestiere; chiunque non insegna a suo figlio un mestiere, gli insegna a divenire ladro”. Ma non era solo questione etico-sociale, ma era qualcosa che investiva la sfera del vivere coerentemente la propria vita di fede. Così, Rabban Gamaliele III, figlio di R. Giuda ha-Nasi, diceva: “È bello lo studio della legge unito con un mestiere manuale, perché l’occuparsi di ambedue fa dimenticare il peccato. Ogni studio della legge staccato dal lavoro manuale risulta vano ed è incentivo di peccato” (Aboth, 2,2). Era la regola dei grandi rabbini: Shemaya era falegname, Hillel muratore, R. Johanan ben Zakkai calzolaio, R. Juda ha-Nasi panettiere. Paolo seguì tale visione del “lavoro manuale” nella sua attività pastorale: “Lavorando notte e giorno per non essere di aggravio a nessuno di voi, predicammo in mezzo a voi il Vangelo di Dio” (1Tes 2,9). “Non mangiammo mai gratuitamente il pane di nessuno” (2Tes 3,8), ma “ci affaticammo lavorando con le nostre mani” (1Cor 4,12).

“Lavorando notte e giorno”
Tale espressione paolina di 1Tes 2,9 esprime l’idea della «fatica e travaglio» che Paolo dovette sostenere durante la predicazione a Tessalonica. È possibile che a Tessalonica qualche membro della comunità gli abbia dato alloggio e un lavoro che gli permettesse di continuare la missione. Ciò, però, gli procurava un “travaglio” interiore: desiderava dedicarsi pienamente “all’annuncio del Vangelo”, ma per non “essere di peso ad alcuno” doveva anche lavorare. Egli non vuole essere un mantenuto. E lo scrive chiaramente in 1Cor 9,11-12: “Se noi abbiamo seminato in voi le cose spirituali, è forse gran cosa se raccoglieremo beni materiali? Se gli altri hanno tale diritto su di voi, non l’avremmo noi di più? Noi però non abbiamo voluto servirci di questo diritto, ma tutto sopportiamo per non recare intralcio al vangelo di Cristo. ... Io non mi sono avvalso di nessuno di questi diritti, né ve ne scrivo perché ci si regoli in tal modo con me; preferirei morire. Nessuno mi toglierà questo vanto!” (cfr anche 1Tes 2,10). In 1Tes 4,11, Paolo esprime un altra idea sul lavoro manuale: il lavoro serve ad accrescere l’”amore fraterno”, “a vivere in pace” e “ad occuparsi dei propri affari e lavorare con le proprie mani”. Il credente deve cercare sempre la pace con se stessi e con gli altri, come espressione della “filadelfia”, l’amore fraterno. Per Paolo, la “filadelfia” è completa quando il credente assume uno stile di vita dinamico e produttivo per la comunità. “Lavorare con le proprie mani” indica l’impegno e la dedizione che il credente pone nel realizzare il proprio lavoro come espressione dell’«amore fraterno». Tale modo di «lavorare» è un modello di vita che edifica anche gli estranei (cfr Col 4,6). Anzi, in 2Tes 3,8-12, Paolo rimprovera alcuni che, in vista dell’imminente “parusia del Signore”, si comportavano in maniera oziosa e indisciplinata (2Tes 3,11); ad essi l’apostolo dà una regola di vita precisa: “chi non vuol lavorare neppure mangi” (2Tes 3,10) e offre l’esempio suo e dei suoi collaboratori: “Non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi” (2Tes 3,7b-8). Dietro tale esempio, i Tessalonicesi, nell’attesa del Signore, debbono “mangiare il proprio pane lavorando in pace” (2Tes 3,10). Tale è stata la norma del suo agire apostolico, come testimonia 1Cor 4,11-12: “Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani” (cfr anche 2Cor 11,23-33). Un’altro testo sul lavoro manuale è l’esortazione di Paolo in Ef 4,28: “Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si affatichi lavorando onestamente con le proprie mani, per avere di che condividere con chi si trova in necessità”. Tale brano fa parte della lunga catechesi parenetica di Ef 5,25-5,2, in cui le varie esortazioni si susseguono l’uno all’altro, affrontando vari problemi che si riscontravano nella comunità di Efeso. Uno di questi problemi si trova in Ef 4,28 e voleva contrastare un comportamento, comune nel mondo pagano, ma del tutto incoerente per chi ha deciso di “rivestire l’uomo nuovo” (Ef 4,24) e vuol “camminare nella carità di Cristo” (Ef 5,1-2): evitare il vizio del rubare. Paolo soppesa le parole. Egli si rivolge non ha un «ladro», ma a “chi è solito ancora rubare”, nonostante che abbia “ri vestito l’uomo nuovo”. A tale persona, Paolo offre una catechesi in chiaroscuro: negativa, espressa con un forte imperativo interruttivo: “non rubi più/smetta di rubare”, e positiva, espressa con i termini del “lavoro manuale”: “si affatichi compiendo il bene con le proprie mani”. In altre parole, è un invito alla laboriosità, ad accettare la “fatica” per procurarsi il necessario per vivere decorosamente e dare aiuto a chi ha bisogno. Tutto ciò dimostra la sensibilità pastorale di Paolo, decisa e nello stesso tempo delicata e concreta. In conclusione, mi sembra che il “lavoro manuale” nell’epistolario paolino non è visto come fine a se stesso né come un mezzo per soddisfare le proprie necessità, ma come un’occasione per l’annuncio del Vangelo. Inoltre, esso ha anche una dimensione etico-ecclesiale: Paolo presenta il “lavoro manuale” non solo come “mezzo efficace” per superare certi comportamenti personali (il rubare in Ef 4,28; o l’ozio in 2Tes 3,7.10-11), ma soprattutto per edificare la comunità con un servizio improntato ad una carità effettiva e operosa. In altre parole, il “lavoro manuale è al servizio del “lavoro apostolico”.

Affaticarsi nel Signore
Se si escludono 1Cor 9,13 e 16,10, per lo più il “lavoro apostolico” nell’epistolario paolino viene espresso con il verbo κοπιάω. In Rom 16,6.12 c’è un breve encomio rivolto a Maria, a Trifena e a Trifosa, che “si sono affaticate per voi nel Signore”. In 1Cor 16,15-16 si raccomanda ai Corinzi la famiglia di Stefana, in quanto essa ha affrontato delle fatiche per i fratelli. Anche 1Tes 5,12 è un invito a trattare con rispetto e riguardo “coloro che presiedono la comunità e sostengono delle fatiche per essa”. Più interessanti, poi, sono i testi di Fil 2,16; Gal 4,11; Col 1,29, in cui Paolo parla delle sue “fatiche apostoliche” in favore del Vangelo. In Fil 2,16, Paolo, dopo aver raccomandato ai credenti di “essere figli di Dio” puri in mezzo ad un generazione perversa, scrive: “Allora nel giorno di Cristo, io potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato”. L’immagine del “correre” è un modo dinamico per indicare l’attività apostolica che Paolo, “in vista del giorno del Signore”, aveva svolto e svolgeva a favore dei Filippesi. Essa aveva comportato “fatica” e «travaglio» all’apostolo, tanto da finire persino in carcere (At 16,22-23; Fil 1,2-4). Comunque, Paolo riconosce che i credenti di Filippi hanno corrisposto alle sue sollecitudini apostoliche e ritiene di “non aver corso né faticato invano”. In Gal 4,11, Paolo, vedendo i Galati tentennare nel loro comportamento di fede (Gal 1,6-10; 3,1; 4,8-11; 5,7-12), esprime tutto il suo rammarico: “Temo a vostro riguardo, di essermi affaticato invano per voi”. Paolo non teme che il suo “lavoro apostolico” sia compromesso, ma che le sue “fatiche” spese a favore dei Galati potrebbero andare a vuoto e non procurare loro la salvezza. Teme che i Galati possono rendere vano il suo lavoro apostolico e quindi l’opera di Cristo a loro favore. Più interessante è il testo di Col 1,29, soprattutto se lo si legge nel contesto immediato, di 1,23-29, che presenta a mio parere tre caratteristiche essenziali dell’apostolato paolino: Paolo, diacono del Vangelo, il lavoro apostolico come “grazia”, le sofferenze apostoliche di Paolo.

Paolo, diacono dell’evangelo
In nessun testo, si trova in maniera esplicita tale “titolo”. Nell’epistolario paolino, si può trovare che “l’autorità civile” è “diacono di Dio” per il bene dei cittadini o per la giusta condanna di chi opera il male (Rom 13,4). Anche i ministri della Chiesa sono “diaconi di Dio” (2Cor 6,4), “diaconi della nuova alleanza” (2Cor 3,6), “diaconi di Cristo” (2Cor 15,23; Fil 1,1; Col 1,7), “diaconi della Chiesa (Rom 16,1: Febe; Col 1,25). Solo in Col 1,23, indirettamente Paolo si attribuisce tale “titolo”: “di cui io Paolo sono divenuto ministro”. Il relativo si riferisce al termine «Vangelo», un genitivo oggettivo dipendente da διάκονος: “io sono servo del Vangelo/ io servo il Vangelo”. Ancora meglio: “di cui, io Paolo, mi sono fatto diacono”, mettendo in risalto la volontarietà del suo atto e la sua completa dedizione al Vangelo. È una sfumatura interessante, in quanto conferisce all’apostolo l’auctoritas docendi nei confronti della comunità dei Colossesi. Egli è “apostolo” e “servitore del Vangelo”. E tale funzione gli attribuisce autorevolezza nella comunità di Colosse, anche se egli non è il fondatore diretto della comunità (cfr Col 1,7). Paolo, in quanto «servo di Cristo», compie a favore della Chiesa la diakonía del Vangelo, se ne assume tutto il peso, le lotte e le fatiche che tale servizio comporta.

La grazia che mi è stata concessa
D’altra parte, la sua libera decisione di farsi ministro del Vangelo è “secondo la disposizione di Dio” (Col 1,25). Il genitivo «di Dio» è un genitivo di autore: “secondo l’ufficio/incarico che Dio mi ha concesso”, espressione cara a Paolo (cfr Rom 5,5; 12,3; 12,6; 15,15; 1Cor 1,4; 3,10; 15,57; 2Cor 5,5; Gal 2,9; Ef 3,2; 3,7; Col 1,25; cfr anche 2Tim 1,9), e sottolinea che la vocazione ad “essere diacono del Vangelo” gli viene da Dio. Egli è “amministratore della chiesa”, abilitato ad annunciare il Vangelo alla Chiesa di Dio. E l’azione apostolica di Paolo è orientata a far crescere e sviluppare ovunque la Parola del Vangelo (cfr 1,5-6), cioè “la parola che Dio” ha rivolto agli uomini e mediante la quale si manifesta e dona ad essi la salvezza. Tutto ciò Paolo lo ha fatto “ammonendo ogni uomo e ammaestrando ogni uomo con ogni sapienza, per presentare ogni uomo perfetto in Cristo” (Col 1,28). Il binomio «ammonendo e ammaestrando» sottolinea il modo come si svolgeva la predicazione paolina nelle varie comunità a cui egli aveva annunciato il Vangelo. L’apostolo, non solo ha annunciato il Vangelo a tutti (“ogni uomo”), ma ha anche cercato sempre e con tutti i mezzi di essere “consigliere e maestro” per meglio far fruttificare il Vangelo nella loro vita. Il verbo “ammonire” esprime da una parte l’impegno a dover superare una certa resistenza delle persone a cui Paolo si è rivolto e dall’altra il desiderio di volerle aiutare a penetrare esistenzialmente nel messaggio ricevuto. Non si trattava solo di “ammonire”, cioè di mettere in guardia da certi modi negativi di essere persone umane, ma soprattutto di indirizzare la mente e il cuore verso Cristo e in lui raggiungere la perfezione (cfr Rom 15,14; 1Cor 4,14; 1Tes 5,12.14). Così, «l’ammonire» riguardava il primo approccio con coloro a cui era annunciato il Vangelo, mentre «l’insegnare» riguardava l’approfondimento della fede ricevuta, presentando dei motivi sapienziali che facessero comprendere meglio ai pagani i contenuti essenziali dell’Evangelo e li aiutassero a prendere la loro decisione per Cristo e divenire così “perfetti”. «A ciascuno di essi egli ha riservato tempo e fatica (Col 1,29) per farli divenire “perfetti in Cristo”; a ciascuno uomo», Paolo si è rivolto “in maniera sapiente”, usando un modo di parlare e di correggere adeguato alla comprensione dei suoi ascoltatori (cfr Col 4,6), ma nello stesso tempo li ha introdotti nella profonda conoscenza del «mistero di Cristo» e così “presentare ogni uomo perfetto in Cristo”. La predicazione di Paolo persegue lo stesso scopo di Cristo, che riconciliando i credenti “li presenta a sé santi e immacolati e irreprensibili al suo cospetto” (Col 1,22). La perfezione non si basa solo sulle capacità umane, ma “sulla potenza di Cristo” (2Cor 12,9) e sulla “sapienza di Dio” (1Cor 2,6), che rinnova la mente del credente mediante la fede, lo spinge nel discernimento e nell’anelito, carico di speranza, ad unirsi totalmente a Cristo.

Le sofferenze apostoliche
Per realizzare tale programma apostolico, Paolo ha molto sofferto: “In vista di ciò anche mi affatico, lottando con quella sua energia che agisce potentemente in me con potenza” (Col 1,29). Il verbo «affaticarsi» indica, anche qui, la fatica conseguente al lavoro apostolico e alla dura lotta che Paolo deve affrontare nell’annunciare il Vangelo ai pagani e, una volta che li ha convinti ad essere credenti, nel guidarli verso la perfezione in Cristo. Il gerundio «lottando» si rifà alla metafora sportiva della “lotta” e accentua l’impegno e l’accuratezza con cui l’apostolo affrontava il suo lavoro apostolico: “mi affatico ponendomi in lotta con tutte le mie forze”. Tale impegno personale, poi, non nasce dalle possibilità umane di Paolo, ma da quella “forza potente” che Cristo gli ha comunicato rendendolo “apostolo dei gentili” e “diacono dell’evangelo”. Nulla può fermarlo: né fatica né lotta.

Fate tutto nel nome di Gesù per la gloria di Dio
Tale analisi esegetica ci permette di mettere a fuoco alcuni tratti teologici del pensiero paolino sul “lavoro”. Essi hanno un punto di convergenza comune, che può essere teologico come in 1Cor 10,31: “Fate tutto per la gloria di Dio”, o cristologico come in Col 3,17: “E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre”. Questi due punti di convergenza non si contraddicono tra di loro, anche se il secondo sembra più comprensivo e più adatto al pensiero paolino, tutto centrato sulla cristologia e orientato alla gloria di Dio. L’espressione: «tutto/tutto ciò che fate», nel pensiero di Paolo, ha senso totalizzante e distributivo di un’azione ripetuta o abituale: “tutto ciò/ogni azione che di volta in volta fate/che siete soliti fare”. Pertanto, c’è un’insistenza voluta sulla “singola azione”, sia che essa viene effettuata “in parole” o venga compiuta “in opere”, tutto deve essere compiuto “nel nome del Signore”. L’espressione è semitizzante e riflette l’uso di intercalare, durante il proprio parlare o lavorare, la benedizione μveh} ËWrb’, «benedetto il nome», che è un modo di riconoscere la sovranità di Cristo sulla propria vita e sul proprio agire. Tutto ciò che un cristiano compie, ogni sua manifestazione di vita deve compiersi sotto la menzione e l’invocazione del nome del Signore Gesù. E ciò deve avvenire particolarmente nell’agire concreto dei credenti, sia quando pregano o proclamano la propria fede, sia quando “si istruiscono o ammoniscono a vicenda”, sia quando operano per la diffusione del Vangelo e l’avvento del Regno di Dio (Col 1,13; 4,11). La vita del credente, però, come quella del Cristo, è sempre orientata alla gloria di Dio Padre, al quale bisogna esprimere la propria riconoscenza per tutti i benifici del suo amore. Anzi, “in Cristo”, “nel suo nome”, ci rivolgiamo al Padre e abbiamo accesso presso di lui, perché Egli è il fondamento e il fine verso cui si dirige il nostro agire, il nostro “lavoro”. E il “lavoro” del credente ha degli orientamenti ben precisi:

Essere operosi nella carità
Tale esortazione, presa in senso etico, trova un fondamento sia nel pensiero greco che in quello dell’AT. Solone, per esempio affermava che “l’inoperosità (ἀργία) è la madre di ogni male” e sembra che sia stato Catone a dire per primo che “l’ozio è il padre dei vizi”3. In Prov 6,6-9; 20,13; 26,14, testi anteriori a Catone, viene espressamente condannata la “pigrizia”, mentre in Sir 33,28, parlando dei servi, scrive: “l’ozio insegna molte cose cattive”. Ma credo che Paolo in 2Tes 3,7-10 si rivolge ad una comunità più compatta di quella greco-romana o ellenistico-giudaica, in cui sia “servi che padroni” condividono ormai un’impostazione sociale diversa, come risulta dai codici familiari di Ef 5,21-6,9 e Col 3,18-4,1. La “società credente” ormai si basava su principi nuovi: 1) “Non c’è più schiavo né libero ..., perché tutti siete divenuti “uno nel Cristo Gesù” (Gal 3,28; 1Cor 12,13; Col 3,11); 2) “Ciascuno rimanga nella condizione in cui era quando fu chiamato. ... Perché lo schiavo che è stato chiamato nel Signore, è un liberto affrancato del Signore! Similmente chi è stato chiamato da libero, è schiavo di Cristo” (1Cor 7,20-23); 3) “Ricevilo (Filemone ad Onesimo) non più come schiavo, ma come fratello carissimo nel Signore” (Fm 16). La schiavitù non è abolita, ma superata attraverso la convinzione che tutti siamo divenuti un solo corpo (1Cor 12,12-27) e che nella carità dobbiamo servirci gli uni gli altri (Gal 5,13). Nella pratica, però, un così alto progetto di superamento della schiavitù registrava dei problemi: i padroni, per quanto ben disposti ad abolire la schiavitù ed essere “operosi nella carità”, non desideravano perdere i loro beni né cambiare il loro modo di vivere e la loro autorità; i servi, facendo leva sulle nuove idee di uguaglianza tra i membri della comunità cristiana, a volte si sottomettevano malvolentieri ai loro padroni cristiani e a volte indulgevano alla «pigrizia» e al «servilismo», tanto che Paolo li deve richiamare: “non servendo solo quando vi vedono, come si fa per piacere agli uomini, ma con cuore semplice e nel timore del Signore” (3,22). Tutto ciò caratterizzava negativamente gli schiavi credenti, in quanto si comportavano come persone che cercavano il favore dei loro padroni e agivono in maniera ingannevole e servile. Non è “l’ozio” in se stesso che viene rigettato, ma l’ozio che inganna sia chi lo pratica sia chi lo subisce, l’ozio che non edifica la comunità. Così, l’apostolo può aggiungere: “Voi sapete infatti che ciascuno, sia schiavo sia libero, riceverà dal Signore secondo quello che avrà fatto di bene” (Ef 6,8).

Servire i fratelli con semplicità di cuore
Ma non basta “fare il bene”, bisogna farlo “con semplicità di cuore, temendo il Signore”. L’espressione si trova sia in Col 3,22 sia in Ef 6,5, ma con una leggera variazione: “con semplicità di spirito, come a Cristo”. Il “lavoro” dei servi deve scaturire da un cuore rinnovato dalla fede, che “cerca il Signore con cuore semplice” (Sap 1,1; 1Cron 29.17) e che non intende ingannare il prossimo, perché è divenuto suo fratello di fede. Non si agisce con inganno e doppiezza, ma “nel timore del Signore”. Non si tratta di un “timore” che nasce da paura, ma da un rapporto reverenziale con Cristo. Niente servilismo, ma piena coscienza di «servire Cristo»; niente dispotismo del padrone credente, che attraverso il suo comportamento “giusto ed equo” si prepara ad affrontare serenamente il giudizio del suo Signore che sta nei cieli.

Servire Cristo Signore
Sia Ef 6,6-7 che Col 3,24 accentuano un dato ben preciso: il lavoro che si svolge a favore dei fratelli è un “servizio a Cristo” e rende il credente partecipe dell’eredità dei santi (Col 1,13). La formulazione di Col 3,24 è molto precisa e concisa e offre molti motivi di riflessione: “Sapendo bene che dal Signore riceverete la ricompensa della sua eredità. Servite a Cristo Signore!”. “Sapendo bene”: non si tratta di un semplice sapere personale, quanto di una certezza proveniente dalla fede (cfr Rom 13,11; 1Cor 2,2; 2Cor 4,14; 5,11; Ef 1,18; Gal, 2,16; 4,8) e che guida l’agire del credente in qualsiasi situazione si trova e attraverso il suo servizio si prepara a ricevere dal Signore la ricompensa della sua fedeltà. “Dal Signore riceverete la ricompensa della sua eredità”: è questa la convinzione profonda di fede, a cui fa riferimento Paolo e che guida il cammino terrestre del credente. L’attesa del “ritorno del Signore”: “Quando Cristo, la vostra vita, si manifesterà, allora anche voi con lui sarete manifestati nella gloria” (Col 3,4). Da parte sua, l’espressione: “riceverete di nuovo per voi la ricompensa” insiste sull’impegno del credente per ottenere dal Signore la retribuzione promessa ai suoi servi fedeli, “la promessa che consiste nell’eredità” (Col 3,24). Affermazione grandiosa: il credente diviene “partecipe dell’eredità”, e il suo “lavoro” lo apre a tale eredità gloriosa (Col 1,27), già posta nei cieli (Col 1,5), dove risiede Cristo (Col 3,1), “speranza della gloria” (Col 1,27). “Servite a Cristo Signore!” è il punto di arrivo di quanto affermato in Col 3,23-24, dove i “servi credenti” sono esortati ad operare “in sincerità di cuore” e ad avere sempre di mira il servire gli altri “come al Signore” (Col 3,23). Ed è anche il punto, a cui debbono fare riferimento anche i padroni, in quanto non solo devono dare «il giusto e l’equo» ai propri servi, ma devono pensare che hanno «il Signore nei cieli».

Fare tutto rendendo grazie a Dio
Per Paolo, stando a Col 3,17, anche il lavoro, “tutto ciò che fate”, è un motivo per rendere grazie a Dio: “ringraziando a Dio Padre per mezzo di lui (Cristo)”. L’espressione sottolinea che la vita operosa del credente è orientata a Dio Padre, al quale bisogna esprimere la propria riconoscenza per tutto i benifici del suo amore e cercare la sua gloria. E il ringraziamento, che è adorazione, ha il suo valore pieno attraverso la mediazione del Cristo Gesù a nostro favore. Solo “mediante lui” ci possiamo rivolgere al Padre e avere accesso presso di lui, perché egli è il fondamento, il modello e la guida del nostro lavoro e del nostro impegno a favore dei fratelli di fede e verso tutta la società (cfr Col 4,5). Anzi, secondo Col 3,15, i credenti debbono “essere sempre riconoscenti” verso Dio, sottolineando che l’essere riconoscente è un traguardo costantemente da raggiungere. I credenti, quindi, sono esortati ad esprimere la loro riconoscenza a Dio che li ha chiamati ad appartenere alla Chiesa e ad inneggiare a Cristo che regna in mezzo a loro, mantenendoli uniti, operosi e in pace. E, stando all’espressione dinamica del testo, di vivere sempre in perenne “eucaristia” la propria esistenza operosa nella fede.

Per approfondimenti visita il sito dell’Ordine dei Frati Minori



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