Né tra le beatitudini proclamate nei vangeli né tra le tante altre disseminate nella Bibbia, se ne trova una che suoni esplicitamente «Beati i deboli!». È vero che potremmo trovarla implicitamente contenuta nella beatitudine dei poveri, degli afflitti, dei miti… tutta gente “debole”. Però, senza presumere di suggerire qualcosa al Signore, osiamo pensare che avrebbe fatto bene, a noi malati di maturismo e di autonomismo, trovare bella e chiara nella Sacra Scrittura la beatitudine della debolezza. Possiamo supporre allora che il Signore non ci rimproveri se proclamiamo da soli la beatitudine dei deboli, assumendoci naturalmente il compito di specificarne il significato e di giustificarne il perché. Per deboli intendiamo non tanto coloro che sono deboli (saremmo in realtà tutti beati!), ma coloro che si sentono deboli, sono coscienti di esserlo e agiscono tenendo conto della loro debolezza. Ogni beatitudine dice perché qualcuno è dichiarato beato: «Beati… perché…», quindi, se ci felicitiamo con coloro che sono coscienti della propria debolezza, abbiamo il dovere di spiegarne la ragione. Ce n’è più di una ed è dal rendercene conto che capiremo perché i deboli sono beati.
Il mistero della grazia
Di diritto (teologico) la prima ragione riguarda il rapporto con Dio: beati i deboli perché sono oggetto della predilezione di Dio, il quale volge il suo sguardo «sull’umile e su chi ha lo spirito contrito» (Is 66,2). La fede nel Signore che «ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili» (Lc 1, 52), inclina chi ha coscienza di essere debole a riporre ogni fiducia in Dio. È il segreto della riuscita: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo, che pone nella carne il suo sostegno… Benedetto l’uomo che confida nel Signore e il Signore è la sua fiducia» (Ger 17, 5.7). Bisognerebbe meditare di più il mistero della grazia, dell’amore del Padre che nel Cristo e con il dono dello Spirito ci viene incontro per risanarci e far risplendere in noi la gloria della sua potenza salvifica. Proviamo a penetrare in espressioni come: «Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti» (1Cor, 27); oppure: «Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo» (2Cor 12, 9). Un’anima profondamente permeata da questa verità, santa Teresa di Lisieux, è arrivata a scrivere: «La santità non consiste in questa o quella pratica, ma in una disposizione del cuore che ci rende umili e piccoli tra le braccia di Dio, coscienti della nostra debolezza e fiduciosi fino all’audacia nella sua bontà di Padre» (Lettere). Facile allora la via della santità? La giovane Teresa scriveva nella stessa lettera: «Bisogna consentire a restare sempre poveri e senza forza, e questo è difficile». Paradossi della condizione di peccato: sperimentiamo la nostra infermità e ci resta tanto difficile accettare di essere deboli. E d’altra parte, senza accettazione della propria debolezza non si apre il cuore alla forza salvifica di Cristo. Se tale è la via della salvezza, la nostra beatitudine può essere formulata anche così: «Beati i deboli, perché non presumono delle loro forze». Forse non sempre riusciamo a comprendere quali conseguenze derivano dal fatto di non presumere di sé o delle proprie forze. Sono molte in realtà e di rilevante importanza.
Un rimedio contro la presunzione
Chi non presume delle proprie forze, non si espone temerariamente al pericolo. Dice il Siracide: «Come alla vista del serpente fuggi il peccato: se ti avvicini ti morderà» (21,2). Quante cadute e quante rovine sono da ascrivere alla presunzione! Non si condanna certo il coraggio e la fiducia in Dio nell’affrontare i pericoli inevitabili, ma va evitata l’imprudenza, l’incapacità di tener conto della propria infermità o immaturità. Il Signore ci sostiene nella debolezza, non ci conferma nella presunzione e nell’imprudenza. Chi non si fida delle sue forze si lascia pure aiutare, guidare, illuminare dagli altri. Se il Signore rimane la sorgente di ogni luce e di ogni forza, ci fa pure il dono di trovare un sostegno nei nostri fratelli, soprattutto in quelli che possiedono un particolare carisma per farlo e nei quali la grazia ha già prodotto abbondanti frutti di sapienza. La storia ci dice a quali imprevedibili sbandamenti può andare incontro chi si fida solo di se stesso, del proprio giudizio, delle proprie intuizioni o esperienze spirituali (è la cosa più pericolosa!) senza la disponibilità al confronto umile e docile con chi può aiutare a scoprire la verità. Tra i motivi della nostra beatitudine, ne aggiungiamo uno riguardante il cammino di conversione e di perfezione: beati i deboli, perché sono pazienti nel sopportare i pesi e le lentezze di un lungo itinerario e non si scoraggiano per le cadute e resistenze. Sembrerebbe che ad aver coraggio sia chi si sente forte. Sarebbe così se chi si sente forte lo fosse pure in realtà e quindi percorresse con costante successo la strada della santità. Di fatto però il nostro avanzare, pur sostenuto dalla potenza della grazia, è sempre disseminato di inciampi, e se uno non accetta la realtà della propria debolezza, finisce prima o poi per impazientirsi, perdersi d’animo e magari rinunciare a ogni tentativo di progredire.
Scriveva il Padre F. W. Faber: «L’esperienza non ci ha ancora insegnato con quante sconfitte si guadagna ogni vittoria nella vita spirituale» (Il progresso dell’anima). Chi si considera debole lo ha imparato e quindi non si meraviglia della monotonia delle ricadute, non si scoraggia. Purché naturalmente confidi nell’amore paziente di Dio e sia sempre pronto a risollevarsi e a riprendere il cammino con ostinata fiducia nella grazia. La beatitudine della debolezza non può non riguardare anche il rapporto con il prossimo. Beato chi è cosciente della sua debolezza, perché più facilmente ha comprensione per la debolezza degli altri. È quindi benevolo nel giudizio, capace di soccorrere senza deprimere, paziente, se ne ha il carisma, nel condurre le anime gradualmente sulla via della conversione e della santità. Bisogna certo stare attenti a non fare della debolezza un programma di vita, attenti a non proiettare sugli altri una debolezza personale cullata dallo scoraggiamento o dall’accidia. Ma beati noi se, camminando malgrado le nostre debolezze, riusciamo a far camminare con fiducia chi condivide la stessa condizione di infermità.
Motivi per dichiarare beati i deboli da un punto di vista cristiano, come si vede, non mancano. Non manca neppure la debolezza. Abbiamo dunque una bella occasione per dichiararci beati: sarebbe un peccato lasciarsela scappare.
In GUIDATI DALLO SPIRITO, di Umberto Occhialini
dal n. 2/2022 della Rivista Porziuncola
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