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Una Porziuncola desiderante! 11 Mag 2023

L'orante secondo sant'Agostino

L’immagine di Dio
Il punto di partenza muove dal dettato biblico di Gen 1,26-27 riguardo all’uomo creato a immagine di Dio. Nel De Trinitate si legge: «Il vero onore dell’uomo consiste nell’essere l’immagine e la somiglianza di Dio» (XII,11,16). Tale prerogativa consta nella capacità, posseduta dall’uomo - a differenza degli animali - di conoscere e aderire a Dio, in maniera talmente intima all’uomo da essere «immortalmente insita nella sua mortalità» (XIV,4,6). Nemmeno il vortice peccaminoso delle passioni ha il potere di danneggiare questa immagine di Dio, incisa nell’anima umana che, pertanto, è capax Dei, pensata cioè per accogliere Dio, misteriosamente ma realmente. Suddetta immagine si conserva integra, luminosa e bella nella misura in cui si resta uniti a Dio (cf. XII,11,16) in modo che la somiglianza con lui, determinata dalla capacità di stare in relazione nonché di dialogare con il Signore, dipende da tale vicinanza, mentre la dissomiglianza dall’allontanamento dalla fonte divina. Ne deriva che la perfezione, intesa in termini di compimento più che di impeccabilità, si realizzerà quando «saremo simili a Lui e lo vedremo così come Egli è» (cf. 1Gv 3,2).
Si legge, inoltre, nel Commento al Vangelo secondo Giovanni: «L’uomo è stato fatto ad immagine di Dio, non nel corpo, ma nello spirito. Cerchiamo, dunque, Dio nella sua somiglianza, riconosciamo il Creatore nella sua immagine. Cerchiamo, per quanto è possibile, di trovare lì dentro all’anima ciò di cui stiamo parlando: come mostra il Padre al Figlio, e come il Figlio vede ciò che il Padre gli mostra, prima che il Padre faccia alcunché per mezzo del Figlio». Un passaggio molto denso che vede nell’anima il “luogo” della somiglianza con Dio, il cui contenuto è, anzi, il rapporto comunionale tra il Padre e il Figlio. Se è chiaro l’intento polemico antiariano del passo, è ancor più interessante la inventio della presenza, come persona, di Dio Padre e di Dio Figlio, in noi stessi. Un pensiero, certo, che Agostino ha in comune con i filosofi ma che, al contempo, prende da essi le debite distanze.
Se per loro, infatti, la partecipazione dell’uomo alla divinità prescinde dall’opera di Dio, per l’ipponense è frutto precipuo dell’azione creatrice di Dio (in imagine sua Creatorem agnoscamus). Se, quindi, per Seneca l’uomo può trovare la divinità nella sua ragione, piccola particella divina in lui, comune agli dei e agli uomini (cf. ep. 92,27), Agostino fa proprio leva sul dettato genesiaco che recita “Facciamo l’uomo” (Gen 1,26), per sottolineare la volontà di Dio nel rendere la creatura terreste partecipe di sé, mediante la somiglianza con Lui, elargita dalla sua generosità.  
 

La vita come cammino
Da questa premessa necessaria promana una seconda verità sulla natura e sulla vocazione dell’uomo secondo Agostino. L’uomo è, sì, capax Dei, ma anche indingens Deo, bisognoso, cioè di salvezza, da chiedere con insistenza al Padre. Nessuna creatura umana può appagare una tal sete per quanto ci si butti a capofitto su di esse, come lo stesso giovane Agostino aveva fatto e poi raccontato nella celebre pagina delle Confessioni in cui narra la sua conversione: «Mi gettavo, deforme, sopra queste forme di bellezza che sono creature tue, […] le quali neppure esisterebbero se non fossi tu a farle esistere» (X,27). Quanto ci è vicino l’ipponense in questo tratto, quando cioè fraintendiamo la bellezza che, pur essendo una scala per salire al Bello per antonomasia, come una sorta di calamita, rimane pur sempre un “frammento di cielo” e non il cielo stesso! Confondendo il frammento con l’Assoluto l’uomo è, così, pervaso da un senso radicale di inquietudine, che lo accompagna sempre e dovunque, visto che – acclama Agostino nell’incipit delle Confessioni: «ci hai fatti per te e inquieto è il nostro cuore finché non riposa in te» (conf. I,1,1). Il cuore di un uomo che, sovrastato dall’immensità di Dio desidera entrare in contatto con Lui, attraverso la lode; un uomo che, a distanza di qualche rigo, viene felicemente definito aliqua portio creaturae tuae, una “Porziuncola della creazione” dunque! Particella minuscola, estasiata dalla bellezza soverchiante del Dio che muove ogni cosa e che rende la creatura sempre in cammino, protesa in avanti, costitutivamente un homo viator.
Un uomo, cioè, che porta il “pellegrinaggio” nel cuore, che rifugge la felicità-divano da cui papa Francesco ha messo in guardia i giovani radunati a Cracovia per la GMG del 2016, e si sente al suo posto nella misura in cui cammina verso la meta alta, preparata per ogni persona. In questo senso, pienamente in linea col dettato biblico, ogni uomo è esule dal Signore (cf. s. XII,1 - Mai), dal quale ci si allontana non solo durante il soggiorno sulla terra, in attesa del rimpatrio nel Cielo, ma ogni giorno, a causa del peccato che ci porta lontano dalla casa del Padre. Non sempre, tuttavia, si è consapevoli di questa “essenza itinerante” o, comunque, non tutti conoscono la via che conduce alla meta: «Ogni uomo, che ancora non crede a Cristo, non è neppure sulla via; va errando alla ricerca della patria, ma ignora per quale via vi si giunga e dove sia. Perché dico che cerca una patria? Ogni anima cerca il riposo, cerca la felicità; nessuno, interrogato se vuole essere felice, risponde negativamente, ma come è arrivare alla felicità e dove essa si trovi, gli uomini lo ignorano e per questo vanno errando» (s. XII,1-Mai).
Tutti procederebbero a tentoni se Cristo non fosse venuto a salvarci. Si legge in un Sermone:  Non sapevamo dove passare. C’erano per la via certi anfratti pieni di spine, pieni di sassi, davvero insuperabili. E allora è sceso quaggiù per primo lui che lassù è il primo; è sceso per cercare i cittadini di quella città. Ci eravamo infatti sperduti e, pur cittadini di Gerusalemme, eravamo diventati cittadini di Babilonia, eravamo diventati figli della confusione. [...] È sceso quaggiù come concittadino nostro e ha detto: “Che fate, o cittadini di Gerusalemme? L’immagine e la somiglianza di Dio non è creata se non per Gerusalemme” (s. 16/A,9). 

La mediazione di Cristo 
In ultimo, la necessaria mediazione di Cristo non si limita al richiamo e all’indicazione del percorso da compiere, ma all’opera di restauro dell’immagine di Dio che il peccato, pur non cancellando, tuttavia sfigura e indebolisce. Era necessario l’avvento di un Salvatore come, in principio, si ebbe l’esigenza di un Creatore, e «il Dio giusto, che condannò l’uomo, è anche un Dio misericordioso che libera l’uomo» (cf. s. 43,1). Interessante, in quest’ultima frase, notare l’opera di condanna cristallizzata in un passato circoscritto nel tempo (damnavit, si legge nell’originale), mentre è narrata al presente l’opera di liberazione (liberat), sempre in atto cioè, non limitata a un periodo storico definito, ma realizzantesi ogni volta che si accoglie la grazia del perdono di Dio. 
Alla luce di questi tre irrinunciabili capisaldi dell’antropologia agostiniana, possiamo concludere che l’uomo è, in forza dello Spirito di cui è divenuto dimora con i sacramenti dell’iniziazione, capace di accostarsi a Dio e ora, anche se in misura tenue, praelambit atque gustat ciò che un giorno potrà mangiare a sazietà (cf. s. 21,2).
Tuttavia deve tener in gran conto la necessità di vigilare e di pazientare viste le inevitabili tribolazioni della vita che non gli vengono risparmiate. L’importante è che non abbandoni mai la speranza, divenuta, in Cristo, certezza non vacillante, ma granitica. Spes nostra tam certa est, quasi iam res perfecta sit si legge in en. Ps. 123, 2, eco di quanto già Origene aveva affermato circa la stessa virtù teologale che non manda in confusione coloro che la accolgono quia vera et certa est (cf. Or., CRm IV, 9, 337). Come non pensare, in questa sede, all’identico ossimoro elevato dal giovane Francesco sotto forma di orazione davanti al crocifisso di san Damiano cui chiese: Dammi speranza certa?

A partire da questa paradossale e irriducibile condizione esistenziale, l’uomo non può che aprirsi alla preghiera, certo com’è dell’amore del Padre, rivelatosi nel Figlio, ma anche ontologicamente mancante e proteso verso una meta che, per adesso, crede e vede in prospettiva e per questo motivo in spe currit (s. 21,1). Un uomo, insomma, mendicante di Dio (mendicus Dei, s. 61,4,4), di Lui affamato e assetato ma che, stante la beatitudine evangelica (cf. Mt 5,6), è già felice perché sarà di sicuro saziato, passivo divino trasudante certezza assoluta nel compimento di questa promessa, quindi della conseguente beatitudine. Perché ciò avvenga, però, è necessario provar fame, in modo che la nausea non ci allontani dall’assumere il cibo che ci rende satolli di felicità (cf. s. 61,6,7). Un atteggiamento simile, di mancanza funzionale alla sazietà, Agostino lo raccomanda alla ricchissima Proba, cui indirizza l’epistola 130, tutta incentrata sulla preghiera.

La conditio sine qua non per l’orazione è lo stato di indigenza, di desolazione, non fine a se stesso ma orientato ad attendere il sole che dirada le tenebre più fitte del cuore umano: «Nelle tenebre di questa vita nella quale siamo come esuli lontani da Dio, durante tutto il tempo che camminiamo nella fede senza avere la visione (di Dio), l’anima del cristiano deve considerarsi come abbandonata al fine di evitare che cessi di pregare e d’imparare a tenere l’occhio della fede rivolto alle parole delle sante e divine Scritture, come a una lucerna posta in un luogo oscuro, fino a tanto che non splenderà il giorno e la stella del mattino sorga nei nostri cuori» (ep. 130,2,5). Ecco l’uomo “predisposto” alla preghiera secondo sant’Agostino, una “porziuncola di terra” che “chiede, desidera, bussa” perché affamato e assetato ma, al contempo, certo, in forza della fede nella Parola di Dio, che erit beatitudo in saturitate, non in fame! (s. 61,6,7)    

In PREGARE CON I PADRI, di Graziano Maria Malgeri
dal n. 1/2022 della Rivista Porziuncola 



Graziano Malgeri Preghiera Rivista Porziuncola

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