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L'affascinante impresa di Giovanni da Montecorvino 08 Lug 2023

Frutti maturi in terra di Mongolia

Dopo i viaggi missionari di frate Giovanni da Pian del Carpine (1245) e di frate Guglielmo di Rubruc (1253-1255) molti altri francescani si spingono sempre più ad Est, verso Kambalik (Pechino): sulle sponde dell’Oceano Pacifico, dove i Khan dei Mongoli hanno trasferito la capitale dell’Impero. Gli ordini mendicanti (sia francescani che domenicani) sembrano aver fiutato questo momento della cosiddetta pax mongolica (1244-1345) come un momento favorevole per il Vangelo e seguendo il mandato dei loro Fondatori, si sono spinti “fino agli estremi confini della terra” allora conosciuti. Avendo scelto per amore del Signore la povertà, liberi da ogni possedimento e stabilitas loci, a piedi scalzi, si avventurano sempre più in nuovi percorsi per terra e per mare, tra sacrifici e difficoltà indicibili.
Abbiamo incontrato già frate Giovanni da Pian del Carpine primo “apripista” delle missioni in Mongolia, seguito, a ruota, da frate Guglielmo di Rubruk, che ha chiesto al Gran Khan Mangu anche un lasciapassare per poter di nuovo ritornare in quelle terre ad assistere i cristiani lì deportati dai Tartari e annunciare il Vangelo agli stessi Mongoli.

Le fraternità francescane di appoggio

Sfogliando la letteratura “odeporica” (i diari, le cronache o i documenti del tempo, riguardanti i viaggi) si ha l’impressione che i frati, man mano che avanzano nella missione, soprattutto partendo dalla Terra Santa, vadano creando dei “luoghi”: come degli avamposti, delle piazzeforti che permetteranno poi a quelli che li seguono di rinfrancarsi e proiettarsi più avanti. Tracce ne troviamo, ad esempio, nel racconto che il beato Odorico da Pordenone fa del suo viaggio verso Kambalik. Lui stesso missionario francescano e ambasciatore pontificio presso Temur Khan tra gli anni 1319-1328, descrivendoci sia cose tanto meravigliose agli occhi di un occidentale, sia le enormi pene del suo viaggio per mare, accenna alla presenza di queste fraternità di appoggio nella sua Relatio de mirabilibus orientalium Tartarorum.
Giungendo, per esempio, a Tana (presso l’attuale Bombay), trova frati lì stabilitisi da tempo. Lì «erano stati martirizzati quattro nostri confratelli dei Minori» e Odorico racconta che lui stesso poté raccogliere e «portare diligentemente quelle ossa ai luoghi dei nostri frati» (Relatio VIII,25), a Zaiton «ove noi frati Minori abbiamo due luoghi» (XXI,1). Racconta che anche nella Cina meridionale «sul fiume Talay… a Iamsai… vi è un luogo dei frati minori» (XXV,1). Giunto a Pechino, intorno al 1325-1328, Odorico trova già dei gruppi di francescani: racconta che presso il Gran Khan Temur «noi frati Minori avevamo un posto riservato nella sua corte e dovevamo sempre andarvi (a corte) per dare al Re la nostra benedizione» (XXVI,8). Decine di fraternità, con centinaia di francescani sconosciuti, in missione “in un altro mondo”.  

L’opera di evangelizzazione dei frati tra i Mongoli

Frate Odorico ci spiega anche il perché di tanto successo dei frati nella loro opera di annuncio in quelle terre di cultura totalmente diversa e dedite al culto degli idoli: «In questa contrada Dio onnipotente fece questa grazia ai Frati Minori, poiché in tutta la Tartaria non vi è modo di cacciare i demoni dai corpi dei posseduti, come si caccerebbe un cane dalla casa. Onde molti uomini e donne sono ivi posseduti dal demonio e gli uni e gli altri per dieci diete (ndr: perfino dalla distanza di dieci giorni di cammino) vengono condotti ai nostri fratelli. E questi, quando i detti demoniaci sono condotti d’innanzi a loro, da parte e in nome di Gesù Cristo ordinano a quei demoni di uscire dai corpi e quanto più presto possibile. Allora subito, dato l’ordine, i demoni escono dai corpi di quelli. […] E per tal modo i nostri fratelli Minori battezzano molta gente di quei paesi» (XXXVI,1).   

Il vero architetto della Chiesa in terra di Cina

Frate Odorico da Pordenone al suo arrivo a Kambalik trova già una Chiesa saldamente strutturata: ci sono molti fedeli cattolici, in parte convertitisi dal nestorianesimo e in parte provenienti dal paganesimo. C’è già una gerarchia ecclesiastica. Odorico parla spesso del nostro vescovo, “un nostro vescovo francescano con il quale, pur senza dircene mai il nome, è in piena sintonia. Si tratta di frate Giovanni da Montecorvino.  Nato a Montecorvino, in Irpinia, intorno al 1247, aveva ricevuto una solida formazione militare, giuridica, teologica, con docenza in teologia: «doctissimus et scientissimus». Entrato nell’Ordine, nella Provincia di Terra Santa, intorno al 1279-80 il Corvinate è missionario in Armenia e Persia. Di eccellente reputazione, nel 1289 lo troviamo in Italia presso il Papa, ambasciatore dei re di Armenia e di Persia che chiedevano aiuto contro Tartari e Saraceni.
Il Pontefice Niccolò IV, che attraverso Marco Polo aveva ricevuto dal Gran Khan Kubilai la richiesta di «inviargli cento savii della legge cristiana che conoscessero le sette arti», molto impressionato da questo giovane francescano, lo scelse come suo legato (ambasciatore) per le Missioni in Oriente: consegnandogli lettere per i re, i patriarchi orientali e per il Gran Khan della Cina, Kubilai. Giovanni, confidando solo in Dio, subito si mise in cammino. Da Venezia raggiunse Antiochia, attraversò la Georgia, passò a Sis, capitale dell’Armenia, e a Tabriz, sede del re di Persia: sostò quivi qualche mese dedicandosi alla predicazione e preparandosi al grande viaggio per il Katay (Cina). Assieme a frate Nicolò da Pistoia (domenicano) e a Pietro Lucalongo, mercante genovese a lui molto affezionato, riprese il viaggio apostolico nel 1291 per mare: si imbarcò a Hormuz sul Golfo Persico, circumnavigò l’India. A Maliapur (Madras) dopo la morte del confratello domenicano, sostò per un anno intero: predicando e convertendo un buon numero di indiani. Sempre per mare proseguì verso la Cina approdando a Zaytun.
Poi, forse solcando il “canale imperiale”, giunse, dopo quattro anni di cammino, a Kambalik, all’inizio del 1293-94. Ma qui non trovò più il Gran Khan Kubilai (1260-1294), deceduto pochi mesi prima del suo arrivo: il regno ora era passato al figlio, il Gran Khan Timur (1294-1307), cui poté finalmente consegnare le lettere pontificie. Ottenne la grande benevolenza e la stima del principe Timur, con l’autorizzazione a rimanere e predicare il Vangelo. In Cina il Corvinate rimarrà per ben 35 anni, fino alla morte sopraggiunta ne 1328: per i primi 11-12 anni rimase completamente solo nella sua missione, senza possibilità nemmeno di confessarsi; solamente intorno al 1305 cominciò ad arrivare qualche aiuto.

I trentacinque anni del Corvinate in Cina

Frate Giovanni comprese subito che per una vera evangelizzazione è indispensabile conoscere la lingua locale in tutte le sue sfumature: gli interpreti si erano dimostrati inadatti a tradurre i contenuti del Vangelo.
Questo era particolarmente importane in Cina dove i cristiani nestoriani, presenti da secoli, adoperavano lo stesso linguaggio del cristianesimo romano, ma con contenuti e sfumature diverse. Frate Giovanni perciò, una volta giunto nel Kathay, si dedicò a studiare a fondo la lingua tartara.  Tradusse in quella lingua il Salterio e il Nuovo Testamento, e convertì il principe del Tenduc Giorgio, che era nestoriano e fu ammesso agli ordini minori. Questo fatto rese il Corvinate bersaglio di una subdola persecuzione da parte dei nestoriani i quali, come dirà lo stesso Giovanni nella sua Lettera Seconda, «mi causarono grandissime persecuzioni, asserendo che non ero stato mandato dal Signor Papa, ma che ero una spia, un mago e uno che faceva impazzire gli uomini… presentarono altri falsi testimoni i quali dicevano che era stato mandato un altro Nunzio che portava all’Imperatore un grandissimo tesoro e che io l’avevo ucciso in India e gli avevo sottratto ciò che portava. E questa infamia durò circa cinque anni. Infine, per disposizione divina, tramite la confessione di alcuni, l’Imperatore conobbe la mia innocenza e la malizia degli invidiosi e relegò gli stessi con le mogli e i figli in esilio». Da questa drammatica vicenda il Corvinate uscì ancora più forte: fece costruire chiese, fece dipingere quadri a soggetto religioso, acquistò, secondo il costume dell’epoca, qualche decina di ragazzi orfanelli tra i 7 e gli 11 anni, li battezzò e li istruì, ricorrendo ad opere da lui scritte o redatte, tra cui alcuni salteri, due breviari e trenta innari. Con l’opera di annuncio e l’amministrazione dei sacramenti i credenti a Pechino raggiunsero migliaia. Attraverso frate Tommaso da Tolentino (che poi morirà martire in India) fece recapitare al Pontefice e ai superiori dell’Ordine due lettere, chiedendo aiuti per proseguire l’opera così fruttuosa: e questo mentre in Occidente del Corvinate non si sapeva più nulla: tutti lo credevano morto.  

La creazione della prima gerarchia ecclesiastica in Cina

La seconda di queste lettere del Corvinate venne letta nel 1306 dal pontefice Clemente V, in quel momento in Francia, a Poitiers. Il Papa piangeva dalla commozione per promettenti risultati del Vangelo nel Katay. Prese la decisione, unica, di nominare Giovanni arcivescovo di Kambalik e primate della Chiesa fra i Tartari e di conferirgli la giurisdizione su tutti i cristiani dell’Asia e dell’Europa Orientale, e il privilegio di ordinare e consacrare vescovi, sacerdoti e chierici in quelle città; stabilì poi che a Giovanni fossero assegnati sei vescovi suffraganei che lo aiutassero nel governo apostolico, come da lui richiesto. Il Papa chiese al Ministro generale dell’Ordine dei Frati Minori Gonzalvo di Balboa sette frati da consacrare come vescovi suffraganei i quali, una volta raggiunto il Katay, consacrassero Giovanni da Montecorvino Arcivescovo di Pechino e Patriarca di tutto l’Oriente. Tre di questi vescovi (Nicolò da Banzia, Ulrico da Seyfridsdorf e Andreuccio di Assisi) morirono nel penoso viaggio verso il Katay. Frate Guglielmo da Villanova ritardò la sua partenza, e vi giunse due anni più tardi; gli altri tre (frate Andrea da Perugia, frate Gerardo Albuini e Pellegrino di Città di Castello) giunsero in Cina tra il 1309-1310, assieme a molti altri missionari; consacrarono Giovanni da Montecorvino, ed essi stessi si misero a sua disposizione. Intorno al 1311 furono raggiunti da altri tre francescani vescovi (frate Pietro da Firenze, frate Tommaso e frate Girolamo da Catalogna): fu così organizzata la prima gerarchia in Cina con le sedi di Khambalik, Zayton e Caffa. Il Corvinate ne rimase l’anima fino alla sua morte avvenuta nel 1228; le esequie furono solennissime, con grande partecipazione di cristiani e pagani, e il suo sepolcro fu molto venerato.  

L’oblìo

Immediatamente dopo la sua morte le cronache occidentali fanno l’elogio del Corvinate, definendolo «frate devoto imitatore di san Francesco» (frate Elemosina), «di meravigliosa purezza di vita e di comportamenti santi e lodevoli» (frate Arnoldo Alemanno), «venerato come santo dai Tartari e dagli Alani» (Giovanni Marignolli). Tra gli elogi più belli sulla sua attività e santità di vita, c’è quello della delegazione mongolica degli Alani, che 8-10 anni dopo la sua morte raggiunse il Pontefice ad Avignone attestando che «il vostro Ambasciatore, frate Giovanni, è stato un uomo valoroso, santo e forte ed è deceduto ancor prima di 8 anni fa». Successivamente il Corvinate cade nell’oblio fino alla riscoperta mediante gli studi del secolo XX.
Le cause dell’oblio sono riconducibili ai profondi sconvolgimenti che l’Occidente e l’Oriente avrebbero attraversato di lì a poco. L’Occidente avrebbe conosciuto “la cattività avignonese”, lo scisma d’Occidente, la guerra dei Cent’anni, la peste nera. I frati, divisi nell’interpretazione delle Regola del fondatore, si vanno riducendo di numero (dopo la peste ne rimangono una terza parte), di qualità e di disponibilità alla missione. In Cina la memoria di frate Giovanni da Montecorvino rimase molto viva anche dopo la sua morte, ma nell’anno 1368 i Mongoli furono scacciati dalla Cina e con l’avvento della dinastia Ming il culto cristiano fu represso e fu restaurato il paganesimo. 

In CINA FRANCESCANA, di Rino Bartolini
dal n. 4/2022 della Rivista Porziuncola



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