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Che cosa chiedere a Dio? 10 Ago 2023

La preghiera di domanda secondo sant'Agostino

Dopo aver, in precedenza, riflettuto sull’ “uomo che prega” e sulla “natura della preghiera”, condotti per mano dall’insegnamento di sant’Agostino, gli domandiamo, ora, di illustrarci cosa pensa circa la “preghiera di domanda”, quella che affiora immediatamente sulle labbra di credenti e non, quasi come un moto spontaneo dell’anima in difficoltà e che cerca nel soprannaturale un appiglio di salvezza. 

 

Il paternoster 
Premettendo che il dono dello Spirito Santo sia l’oggetto privilegiato della preghiera cristiana (cf. Mt 7,11), ciò non esclude la richiesta di beni materiali e temporali da formulare, però, attenendosi strettamente al modello di ogni preghiera, quello consegnatoci direttamente dal Maestro, Gesù di Nazareth: il Paternoster, per cui «non è lecito chiedere altro se non ciò che lì sta scritto» (s. 56,5). Agostino riconosce un valore normativo e pedagogico al Paternoster scrivendolo a chiare lettere nell’ep. 130, indirizzata a Proba, matrona dell’aristocrazia senatoria romana rimasta vedova e trasferitasi in Africa dopo il sacco di Roma (410 -Visigoti, Alarico), e che, a Cartagine, aveva dato vita a una comunità religiosa, tra il 411 e il 412.
Vi si legge: «Chi dice cose che non abbiano attinenza con questa preghiera evangelica, anche se non prega illecitamente, prega in modo carnale e non so come quelle cose non si dicano in modo illecito, dal momento che ai rinati nello Spirito conviene pregare solo in modo spirituale […] nel pregare ci è permesso domandare le medesime cose con altri termini (si tratta, infatti, di un modello, non di uno schema fisso n.d.r.), ma non dev’essere permesso di domandare cose diverse». (ep. 130,12,22)  

Cosa chiedere, dunque?  
Attingendo sempre all’ep. 130, scritto a cui è stato attribuito un grande valore emblematico perché ricapitola l’insegnamento agostiniano sulla preghiera, si legge quale debba essere l’oggetto precipuo della preghiera, illustrato con il ricorso a un linguaggio filosofico: «quel bene che bramano tanto i cattivi che i buoni, ma al quale arrivano solo i buoni», ossia la vita beata. (ep. 130,4,9) E «l’unica vera vita e la sola beata consiste nel poter contemplare, immortali per l’eternità e incorruttibili nel corpo e nello spirito, le delizie di Dio», ma questa espressione, avulsa dal contesto, potrebbe essere male interpretata (come spesso è avvenuto con gli scritti di Agostino, “vivisezionati” e letti in maniera parziale e distorta) perché presterebbe il fianco a uno spiritualismo ed escatologismo che non possono essere ritenuti affatto connotativi dell’Ipponense. Tant’è vero che, appena dopo la suddetta frase, Agostino conclude: «In vista di questa sola cosa si cercano e si desiderano onestamente tutte le altre», che, quindi, sono contemplate nell’elenco di richieste da rivolgere al Padre. (ep. 130,14,27) Nessun bene, infatti, viene escluso, purché serva a raggiungere Dio: la salute per sé o per i propri congiunti, la sanità corporale, un matrimonio riuscito e anche il raggiungimento di posti d’onore e di comando, ma «a patto che per mezzo di essi si sovvenga ai bisogni di coloro che vivono alle proprie dipendenze, non mirando a questi beni in sé e per sé, ma per un altro bene che ne consegue. Se invece si desiderano per vano orgoglio di superiorità, per pompa superflua o anche per dannosa vanità, non è lecito desiderarli» (ep. 130,6,12).
L’uso dei beni non deve, perciò, far correre il rischio di un egoismo senza ritorno, ma è bene, invece, che apra alla condivisione con chi, dei frutti di suddetti onori, ha necessità vitale di godere. Sono, altresì, contemplate le richieste relative a ciò che è necessario al sostentamento della vita, all’abbigliamento decoroso, all’incolumità fisica o all’amicizia, anzi «bisogna pregare che questi beni ci siano conservati quando si hanno e ci siano largiti quando non si hanno» (ep. 130,6,13), pur senza mai anteporli a ciò che davvero conta, ossia il conseguimento della vita eterna (cf. ep. 130,7,14).      
Ciò che, insomma, preme ad Agostino è educare i fedeli, con quella sua squisita attitudine a mettersi a servizio del gregge affidatogli, soprattutto dopo la sua sofferta ordinazione sacerdotale (poi accolta con zelo nel 391), ad apprezzare i doni di Dio senza, per questo, elevarli ad assoluto, idolatrarli, finendo per sostituire il Donatore con i suoi doni.
L’ordo amoris non attiene, infatti, solo alla vita affettiva ma deve riguardare anche quella spirituale, la preghiera, per intenderci. Innanzitutto Dio, poi tutto il resto; i beni spirituali, poi quelli caduchi, le cose eterne, poi quelle soggette alla corrosione del “tempo delle lancette”.  
Ciò comporta invocare il Padre nella Verità: «molti, infatti, non lo invocano nella verità. Ricorrono a lui, ma cercano altro, non lui» (en. Ps. 144,22), per non parlare della ribellione di fronte a una richiesta disattesa o, forse, esaudita in tempi non corrispondenti a quelli sperati, espressione di una fede ancora puerile che Agostino vuole a tutti i costi far maturare.  
A volte Dio non esaudisce affatto perché ciò che chiediamo non è il meglio per noi, altre volte dilata i tempi affinché noi siamo ben disposti ad accogliere quanto dispensa, altre volte egli si fa, semplicemente, vicino – come recita il v. 12 del Salmo che sta commentando nella pericope seguente, cioè il 144 - e ciò dovrebbe appagare.
Difatti: «è vicino, cioè non ti ha ancora dato quel che vorresti, tuttavia ti è presente. È come quando il medico applica all’occhio o ad altre membra un rimedio che brucia. L’ammalato supplica che gli venga rimosso, il medico aspetta del tempo e non fa ciò che il malato gli chiede; tuttavia non s’allontana dal malato.
Gli sta vicino e non l’ascolta; anzi non l’ascolta proprio perché vuol essergli vicino. Gli ha applicato il rimedio perché lo vuol curare, e perché lo vuol curare non fa ciò che l’altro vorrebbe. Non ti esaudisce in quella che è la tua volontà del momento, perché vuol esaudirti concedendoti in seguito la [completa] salute, che poi rientra anche questo nel desiderio della tua volontà. Difatti, anche colui che non vuol subire le scottature, vuol certamente acquistare la salute. Quindi il Signore [è] vicino a tutti coloro che lo invocano. Ma chi sono questi tutti? A tutti coloro che lo invocano nella verità. Egli consolida, rialzandoli dalla caduta, tutti coloro che lo invocano nella verità» (en. Ps. 144,22).        
Il fatto che Dio faccia attendere è perché l’attesa tenga vivo il desiderio che è già preghiera. A proposito, scrive altrove: «Il tuo desiderio è la tua preghiera; se continuo è il desiderio, continua è la preghiera. Perché non invano ha detto l’Apostolo: Pregando incessantemente (1Ts 5,17). Forse noi senza interruzione pieghiamo il ginocchio, prostriamo il corpo, o leviamo le mani, per adempiere all’ordine: Pregate incessantemente? Se intendiamo il pregare in tal modo, credo che non lo possiamo fare senza interruzione. Ma c’è un’altra preghiera interiore che non conosce interruzione ed è il desiderio. Qualunque cosa tu faccia, se desideri quel sabato, non smetti mai di pregare. Se non vuoi interrompere la preghiera, non cessar mai di desiderare. Il tuo desiderio continuo sarà la tua continua voce» (en. Ps. 37,14).            
Si legge, anche, che la richiesta di guarigione talvolta possa essere del tutto disattesa perché la sofferenza funga da medicina utile alla salvezza, come nel caso dell’Apostolo Paolo che, pregando di essere liberato dal pungiglione della carne, si è sentito rispondere: «Ti basti la mia grazia, perché la virtù si perfeziona nella infermità (2 Cor 12,9)». E, sempre ricorrendo alla metafora medica, prosegue: «Sotto l’azione del chirurgo, sei bruciato, tagliato, e gridi; il medico non ti ascolta secondo la tua volontà, ma in ordine alla tua guarigione» (en. Ps. 21, II, 4).          
Il problema, dunque, delle preghiere non esaudite trova una risposta esaustiva nella necessità di scongiurare una distorta visione di Dio, che è Padre sapiente e buono con i suoi figli e, questi ultimi, sono chiamati ad abbandonarsi con fiducia alla sua benevola volontà, secondo l’esempio paradigmatico di Gesù Cristo, il quale pregava il Padre di liberarlo dal calice della Passione, ma concludeva: «Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu, o Padre (cf. Mt 26,39)».       
Se, dunque, la salvezza eterna è il dono più grande che il Signore ci riserva, ad essa subordina ogni altro dono che, a confronto, si scolora. Rimane, tuttavia, un re e salvatore potente, come quello servito per ottantasei anni dal vegliardo Policarpo, vescovo di Smirne (cf. M. Polyc. 9,3) e, dal momento che ci salverà: «qualunque cosa si chieda che sia contraria alla nostra salvezza, non la si chiede nel nome del Salvatore.
E tuttavia egli è Salvatore, non soltanto quando esaudisce ciò che gli si chiede, ma anche quando non esaudisce la nostra preghiera: perché quando vede che la nostra richiesta è contraria alla nostra salvezza, si dimostra Salvatore appunto non ascoltandoci» (Io. ev. tr. 73,3).  

 

Oltre la salvezza eterna 
Sebbene raccomandabile, la salus aeterna o vita beata, il cristiano deve anche chiedere con insistenza un altro genere di beni, ai fini sempre della salvezza e capaci di far svoltare, hic et nunc, la sua vita. L’uomo può disporre e godere di tutta la forza, la bellezza e ogni altro bene transeunte che desidera ma ciò che davvero lo distinguerà sarà la vita del suo spirito, dal momento che, come la vita del corpo dipende dall’anima, così la vita dell’anima dipende da Dio.
«Quando Dio, sua vita, è in lei, le comunica sapienza, pietà, giustizia, carità. […] E così, quando la parola arriva e penetra in coloro che l’ascoltano, e quando questi non contenti di ascoltare si rendono ad essa obbedienti, l’anima risorge dalla sua morte ed entra nella sua vita: cioè passa dall’iniquità, dalla stoltezza, dall’empietà al suo Dio, che è per lei sapienza, giustizia, splendore» (Io. ev. tr. 19,12). Ciò, quindi, che è essenziale chiedere è lo Spirito Santo, “datore di vita” che, con i suoi doni raggiunge l’anima fedele e la vivifica. Così facendo: «diffonde la carità nei nostri cuori (cf. Rm 5,5), non una carità qualsiasi, ma la carità di Dio che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera (cf. 1 Tm 1,5).
Il giusto che in questo pellegrinaggio vive di tale fede viene pure condotto alla visione dopo la conoscenza come in uno specchio, in maniera confusa, e dopo tutto ciò che è imperfetto, perché conosca faccia a faccia» (spir. et litt. 28,49). La vita nuova che fiorisce nel cristiano, animato dalle virtù teologali, ricevute in dono con il battesimo, è frutto dello Spirito che occorre pertanto invocare sine cessatione, Lui che è l’eterna novità. Questa categoria, oggi, è sotto l’attacco di una dittatura che confonde il “nuovo” con il “recente”. Lo Spirito è “nuovo” perché rimane se stesso pur rinnovando ogni cosa senza mutare continuamente, come i nostri smartphone “recenti” che, acquistati oggi, sono già obsoleti dopo qualche ora.
Origene, commentando una pericope paolina, ebbe a scrivere: «non pensare che il rinnovamento della vita, che si dice avvenuto una volta sola, sia sufficiente; ma continuamente ogni giorno bisogna fare nuova, se si può dire, la stessa novità (Neque enim putes quod innovatio vitae quae dicitur semel facta sufficiat; sed semper et cotidie si dici potest ipsa novitas innovanda est)» (Or., CRm V,8). E la novitas di cui parla altro non è che lo Spirito Santo. Sulla stessa scia, anche Agostino è persuaso del fatto che solo lo Spirito infonda dolcezza e renda praticabili i comandamenti (cf. spir. et litt. 29,51), regali il gusto per le cose buone così da vincere l’attrattiva suadente del male (cf. Io. ev. tr. 73,1). Con i suoi sette doni lo Spirito coopera con l’uomo nell’adempimento della legge divina (cf. s. 249,2), lo aiuta a vivere le beatitudini del Discorso della Montagna (cf. s. dom. mon. I, 4, 11), lo spinge a cercare e a vivere la comunione con la Trinità e con gli altri uomini, visto che «per mezzo di ciò che è comune al Padre e al Figlio, questi hanno voluto che noi fossimo uniti tra noi e con loro» (s. 71,12,18). Per tali ragioni è lo Spirito Santo che «dobbiamo desiderare di ricevere» (en. Ps. 118, XIV, 2) perché ci consente di rivolgerci a Dio chiamandolo Abbà, Padre, così da bussare senza vergogna e chiedere, rimanendo sempre Lui la meta del nostro umano peregrinare.
La “preghiera di domanda”, quindi, in Agostino è finalizzata all’unione con lo Spirito Santo e, per Lui, con la Trinità. Prepara, liberando il cuore da desideri mondani deteriori e orientandolo verso ciò che davvero conta, a contemplare quel volto che Agostino ha tanto cercato sulla terra. Il suo distintivo quaerere Deum trova nella “preghiera di domanda” lo strumento privilegiato per approdare a un porto sicuro e godere dei beni del Signore «dolci, immortali, incomparabili, eterni, immutabili» (en. Ps. 26,II,22). Questo l’unico desiderio dei seguaci di Cristo, che formano una cosa sola in Lui, nello Spirito Santo: unam illam desideramus, qui unam illam petimus (en. Ps. 26,II,23).  

In PREGARE CON I PADRI, di Graziano Maria Malgeri
dal n. 1/2023 della Rivista Porziuncola 



Graziano Malgeri Preghiera Rivista Porziuncola Sant’Agostino

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