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La storia di Michele Dal Bianco 17 Mar 2023

“Con Dio niente è impossibile”

“Ciao, sono Michele, e tu come ti chiami?”
Nato a Thiene (VI) il 21 aprile 1998, figlio unico di Mariarosa e Giuseppe, arrivato come un dono atteso dopo 5 anni di matrimonio, Michele Dal Bianco è un bambino curioso, aperto agli altri, intraprendente e sorridente. “La sua vivacità e il suo sorriso – dice la mamma – lo contraddistinguevano sempre, fin da piccolo, i suoi occhi avevano una luce speciale. La sua attenzione era sempre rivolta ai più deboli”. Quando, all’età di due anni, i genitori decidono di trasferirsi in un nuovo appartamento, Michele sulla porta di casa saluta i passanti dicendo: “Ciao, sono Michele, e tu come ti chiami?” e dopo poco tempo tutti i vicini sanno dell’arrivo della famiglia Dal Bianco! Un ragazzo normale, Michele, con la passione per il calcio, che condivide con il cugino insieme al quale passa molto tempo sul campetto vicino e in casa, per giocare e raccontarsi. Un giovane pieno di vita, ha una stanza tappezzata di foto che lo ritraggono sempre in compagnia di qualche amico, i poster dei suoi cantanti preferiti, i Sonohra e i The Sun. Il suo piatto preferito sono le “bruschette”, come le prepara la sua mamma! Ha tanti amici, nel gruppo parrocchiale che frequenta e nella scuola, con i quali si intrattiene volentieri, scherzando, con battute e barzellette. “Era una calamita. Parlava con tutti – racconta don Marco – con tutti riusciva a condividere la forza che ha avuto dentro […]. Era travolgente. Voleva far conoscere tutti a tutti”. La fede, ricevuta in famiglia, è vissuta con semplicità e con quella normalità del quotidiano, che sorprenderebbe chi la ritenesse un cammino per pochi o un percorso troppo arduo. Quando la sera in casa a volte i genitori recitano il Rosario, Michele non gradisce nominare i consueti misteri, e li riformula così: “Adesso preghiamo per quei bambini che soffrono, per quella persona in difficoltà…”. Quando veniva a sapere di qualche giovane che aveva perso la vita o stava in sofferenza, si addolorava e si commuoveva fino alle lacrime. 

“Don, devo farti i complimenti!”
Don Federico, il prete che ha accompagnato Michele nell’ultimo periodo della sua vita, ricorda il primo incontro con lui, spiazzante: “Ad un battesimo, da me celebrato, era presente la famiglia Dal Bianco, che mi fu poi presentata da un amico al termine del rito. Dopo che Michele mi disse il suo nome, subito aggiunse: ‘Don, devo farti i complimenti perché ti sei accorto della sofferenza di quel bimbo e hai accorciato la tua omelia’. Da quel primo incontro – testimonia il sacerdote – compresi che quel ragazzo sarebbe stato per me qualcosa di più che un amico: un testimone, un maestro, che mi avrebbe insegnato a stare accanto alla sofferenza degli altri”. E così fu, non solo per lui, ma per altri sacerdoti che, per un motivo o per l’altro, hanno fatto con Michele un pezzo di strada, particolarmente negli ultimi 33 mesi della sua vita, iniziati nel 2012 con la scoperta del tumore – una rara e dolorosa forma di cancro al cervello – che il 15 febbraio 2015 lo porterà alla fine prematura.

Don Marco lo conosce all’incontro vicariale dei chierichetti ed è colpito dalla sua straordinaria normalità, fatta di quotidianità e semplicità: “aveva qualcosa di particolare che traspariva da tutto quello che faceva e diceva […], i suoi occhi scrutavano in profondità. Non era mai banale l’incontro con Michele, anche quando le battute e l’allegria uscivano come un fiume dal suo sorriso”. In quell’incontro, ricorda don Marco, fu “il primo a partire con una preghiera spontanea. Non ricordo precisamente cosa hai detto, ricordo però che hai mostrato come fossi allenato a parlare con Lui. Sì, hai parlato con Lui, con Gesù, non di Lui […]. Per te la preghiera non era fatta di tante parole. Avevi già intuito che pregare non significava dire le preghiere!”. Ricorda che “era entusiasta ed appassionato del servizio liturgico che svolgeva in parrocchia e l’occhio dell’animatore vocazionale l’aveva subito individuato come un ragazzo promettente. C’erano tutte le qualità per poterlo aiutare a interrogarsi su cosa Gesù avesse in mente per lui. Non ha mai scartato l’idea del seminario minore ma insieme alla famiglia l’abbiamo lasciata in stand-by”. Amava la sua famiglia, s’illuminava quando raccontava di mamma Mariarosa e del papà, chiamato familiarmente, Beppe.

Una volta accompagnò don Marco a vedere la sua stanza, dove custodiva con cura immagini, preghiere e oggetti religiosi, e gli spiegava a quale momento della vita e a quale sacramento fosse legato ogni oggetto. Don Galdino, l’ex-parroco di Zané, gravato anche lui da una malattia incurabile, chiamava Michele “mio nipote” e lo raggiungeva spesso con messaggi sul cellulare, telefonate e di persona. Tra loro si era creata una specie di complicità amicale, serenamente scherzavano anche sulla loro precaria salute fisica. Ricorda la mamma che in un incontro in casa, don Galdino sorridendo disse a Michele: “Chi tra noi due partirà prima per il cielo?”, Michele rispose: “Io non lo so, ma è importante che chi arriva prima aspetti l’altro”. Come nella corsa dei due apostoli Pietro e Giovanni al sepolcro (Gv 20) alla fine arriverà prima il più giovane, Michele, e dopo 71 giorni morirà don Galdino. A don Federico piace pensare che Michele, come l’apostolo Giovanni al sepolcro, “nell’Eternità ha voluto aspettare il suo amato e caro don”. 

Quando l’amore scherza con la morte
Una volta Michele invitò don Federico ad un incontro di giovani, perché annunciasse loro la fede. Il sacerdote gli disse: “Tu Michele, puoi parlare della fede molto meglio di come potrei farlo io!”, e lui: “Tu puoi imparare da me, ma anche io posso imparare da te!”. Il papà Giuseppe, quando la malattia avanza e le cure chemioterapiche si fanno più esigenti e invasive, organizza in parrocchia, il 1° giugno 2013, un concerto con i The Sun e fa una sorpresa a Michele, che non si lascia scappare l’occasione, partecipando con una gioia che sembra negare ogni sua fatica, testimonia la sua fede e ringrazia le tante persone convenute, in particolare i suoi genitori e quanti pregano per lui. Alla domanda “Hai visto Michele soffrire?”, don Federico inaspettatamente risponde: “Io direi mai!”. Michele sta di fronte alla sofferenza, e poi alla morte imminente, con serenità, soffre senza farlo pesare sugli altri, sorride e scherza anche nei momenti più drammatici, quasi che quel passaggio verso il cielo fosse “uno scherzo”, come testimoniano i suoi genitori: “Un’avventura davvero straordinaria è stata la malattia, per te: l’hai vissuta quasi come uno scherzo, con tanti tentativi di essere messo al tappeto, ma con sempre la forza, la fede e la perseveranza di ribattere colpo su colpo, e… che colpi! Medici e infermieri non solo rimanevano attoniti di fronte alla tua caparbietà, ma, addirittura, si trovavano loro stessi, da maestri, ad imparare un’arte particolare dal proprio alunno: la sentenza chiara e lampante ‘niente è impossibile’!”.

Don Lucio, il suo nuovo parroco, nell’andarlo a visitare la prima volta, pensa di trovarsi di fronte ad un ragazzo triste e forse arrabbiato per quanto sta vivendo: “invece ho trovato un giovanotto sorridente, pieno di vita, con tanti interessi, che aveva entusiasmo da vendere, che ti diceva quanto bella era la vita e come era necessario affrontarla perché fosse ancora più piena”. “Lo diceva – aggiunge don Luigi – con il suo sguardo sempre incoraggiante: ho voglia di non fermarmi mai”. “Lo invidio… – dice un suo coetaneo – […] non si perde nulla, gusta ogni cosa. È più libero di me. Dice che lo sostiene il Signore. Ultimamente è lui che ricorda a me di andare a Messa tutte le domeniche”. Don Marco, ricordando la forza con cui aveva accettato la sua malattia, afferma: “la tua straordinarietà non è venuta da chissà quale capacità o meriti, ma dalla relazione profonda che hai avuto con Gesù […]. Vorrei dirti, parlandoti di persona, che mi hai insegnato una cosa che neanche tutti gli anni di teologia e di ministero mi avevano ancora insegnato: con Gesù o senza Gesù non è la stessa cosa! Sì, è proprio così!”. Il 4 dicembre 2014, Michele riceve il sacramento dell’unzione degli infermi. “Che ne dici se chiediamo la forza a Gesù? – gli dice don Marco – Mi hai guardato come per dire: io ce l’ho già! […] Ne abbiamo parlato e alla fine tu stesso sei tornato in cucina e hai detto a mamma e papà che si preparassero a vivere questo sacramento”. 

La tua stanza come la grotta di Betlemme
Pochi giorni prima della fine viene a sapere dal parroco, che a breve sarebbe andato a Roma ad incontrare il Papa. “Michele sgranò gli occhi e uscì così: «Don, se ghe scrivo ‘na lettera al papa ghe la portito?». Gli promisi che in un modo o nell’altro l’avrei consegnata”. E così scrisse: “Caro papa Francesco, sono Michele Dal Bianco, ho sedici anni, e da 33 mesi sto lottando contro un raro tumore in testa (pinealoblastoma). Tutto è iniziato nell’aprile 2012 con un forte mal di testa e vomito […]. La mattina del 4 dicembre (2013, ndr), però, mentre ero in ospedale, seduto, accanto ad un quadro che ti rappresentava, caro papa Francesco, ho avuto la sensazione del tuo uscire da tale quadro, venendomi incontro, esclamando: «Michele, non aver paura, ci sono io… qui con te!» […]. Nonostante io mi senta molto provato, non manca in me la forza d’animo e la volontà di continuare a combattere, grazie alla preghiera di tante persone che mi hanno a cuore, ma soprattutto alla mia preghiera personale che sempre accompagna ogni giorno la mia vita […]. Io prego per te… Ma tu prega per me. Con affetto, Michele”. E chiede spesso la preghiera degli altri, dei sacerdoti che lo vanno a visitare e ai genitori all’ospedale dice: “Già che avete la fortuna di andare a messa, pregate tanto per me”.

Come un’intensa settimana santa, gli ultimi giorni di malattia Michele li ha trascorsi immobilizzato a letto, con vicino i suoi cari e centinaia di amici e conoscenti, venuti per salutarlo e consolarlo, ma inconsapevolmente per attingere a quell’energia che dentro di lui, come una sorgente, non aveva mai cessato di zampillare. Quella stanza era diventata, come annota don Marco, un luogo di ri-nascita, come la grotta di Betlemme. Il neurochirurgo e l’infermiera che lo hanno in cura, un giorno, al termine della medicazione escono in lacrime. Il medico più tardi confiderà ai genitori il motivo di quella commozione: “Michele ci ha detto: ‘Sai dottore, so che sto andando da Gesù, ma non ho paura’”. Tra le sue confidenze, don Luigi, ha raccolto questa: “confido sempre di avere questa capacità di stupirmi delle cose, di affezionarmi alle persone, e di non congelarmi, di non staccarmi dalla vita, cosa che questa terribile malattia continua minacciosamente e subdolamente a tentare di fare. Io non mi definisco mai uno sfortunato, ma un gran fortunato, sì fortunato, perché sto vivendo la vera vita, e ritengo sfortunati quelli che hanno tutto”. Il motto di Michele, più volte testimoniato ai genitori e a chi lo avvicinava, era: “Con Gesù, niente è impossibile!”.

Qualche giorno prima della sua partenza per il cielo, nella sua stanza silenziosa, attorniato dai suoi cari, qualcuno pone sul suo petto una croce di legno, portata dagli zii di ritorno dalla Terra santa. “Quella croce appoggiata al tuo petto – dice don Marco, che era presente – che si alzava e si abbassava con il tuo respiro sempre più lento, lieve, ci ha insegnato che in quel momento non eri solo. Il tuo sguardo già si preparava ad aprire gli occhi a Lui”. Gli ultimi giorni, sono interpretati dai genitori come un passaggio pasquale: Michele muore il 13 febbraio, in un venerdì di passione, poi il riposo del sabato, due giorni di attesa “quasi ci stessimo preparando ad una festa”, dice don Lucio. E la domenica di resurrezione, il 15 febbraio 2015, quando vengono celebrate le esequie pasquali, alla presenza di tremila persone e dieci sacerdoti concelebranti: una festa come lui avrebbe voluto, accompagnata dalle testimonianze degli amici e i canti dei The Sun. A distanza di sette anni dalla Pasqua di Michele, Mariarosa e Giuseppe vivono nella certezza che il loro unico figlio non li ha lasciati. La preghiera, compagna di cammino nelle sofferenze di questo tempo, ha rafforzato la loro unità di coppia e come hanno testimoniato a lui, anche durante la malattia hanno scelto di essere coppia, prima che genitori: “allo spirare di Michele, Michele stesso ha iniziato davvero a vivere dentro di noi, offrendoci la grazia di comprendere che la morte non è un distacco, un addio, ma un nuovo parto, una nascita possibile, per chi lo vuole, nella quotidianità della propria fede, umile e semplice. Potremmo affermare, o meglio sussurrare, che Michele è davvero nato alla Vita quando ha ‘apparentemente’ lasciato questa vita!”. L’ultimo ringraziamento Michele l’ha rivolto ai suoi genitori: “Grazie mamma, grazie papà per tutto quello che avete fatto per me”.

In DIRE CRISTO, di Massimo Reschiglian e Maria Letizia Tomassoni
dal n. 2/2022 della Rivista Porziuncola  



Giovani Massimo Reschiglian Rivista Porziuncola Testimonianza

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