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Ricordo di padre Fernando Conti 09 Ago 2017

Misericordia in terra e intercessione dal cielo

Domani, 10 agosto 2017, si compirà il primo anniversario della Pasqua del nostro fratello padre Fernando Conti, il cui ricordo è ancora vivo tra i frati e i fedeli. Uomo mite, testimone della misericrdia di Dio e della Passione del Signore. Lo ricordiamo, Missionario della Misericordia per l’Anno Santo straordinario, con un’intervista concessa per la Rivista Porziuncola durante il suo periodo di permanenza nella nostra Infermeria Provinciale.

Abbiamo incontrato padre Fernando Conti in un timido pomeriggio di quasi primavera; il calendario segnava 17 marzo, giorno del suo 48° anniversario di ordinazione presbiterale. P. Fernando è un uomo di quelli che non fanno rumore (come la terra da dove proviene, il Molise). Da due decenni svolge il ministero di penitenziere alla Basilica di S. Maria degli Angeli, cercato con assiduità da molti penitenti, laici, sacerdoti e religiosi. Attualmente si trova all’Infermeria provinciale della Porziuncola per un impegnativo trattamento terapeutico. Risponde con garbo e volentieri alle domande e, oltre alle parole che dice, emerge un non detto che esprime il desiderio che molti, tanti, tutti possano ricevere il perdono, la misericordia di Dio.

Da quanto tempo svolgi il ministero di penitenziere qui alla Porziuncola? E, in generale, di confessore? In quali ambiti pastorali hai amministrato la confessione?

Qui alla Basilica di S. Maria degli Angeli dal 1° novembre 1996 ma, in realtà, da sempre: sono presbitero dal 1968. Ho confessato ovunque, ma in particolare laddove mi ha portato l’obbedienza: in parrocchia, al carcere maschile e femminile di Perugia, in ospedale e da quasi vent’anni qui alla Porziuncola.

Un’esperienza pastorale e formativa per me molto preziosa, a cui sono immensamente grato per quanto ho ricevuto, è il Cammino Neocatecumenale, dentro il quale ho conosciuto molte persone che, grazie alla misericordia di Dio, hanno potuto cambiare vita passando per davvero dalla morte alla resurrezione.

Qual è lo stato d’animo prevalente con cui si presentano le persone che chiedono di confessarsi?

Ognuno ha la sua personalità, la sua storia, il suo temperamento. Si presentano in modi molto variegati; tra coloro che giungono alla porta del confessionale, ci sono anche quelli che si presentano per caso (ogni vero credente sa bene che nulla avviene per caso!) e poi devono essere aiutati a tirare fuori la loro pena.

E quali sono le domande che emergono dall’ascolto di coloro che incontri in confessionale?

Per molti la prima richiesta al confessore è l’accoglienza di uno sfogo, che diventa richiesta d’aiuto per il discernimento sui peccati e sulla situazione personale. Tale ascolto benevolente diventa carezza, paternità, incoraggiamento. Questa accoglienza però va posta sempre nella verità: sono i penitenti stessi che la domandano.

Da più parti viene affermato che non ci si confessa più, che è calato il senso del peccato, che non vi è una vera educazione a questo sacramento. Qual è la tua esperienza in proposito?

È Dio che muove le persone, è Lui che le conduce, è Lui che le porta all’incontro con la grazia. Per il confessore ogni persona che si affaccia per confessarsi (a prescindere dal fatto che per la sua condizione possa essere assolta o meno) è un’occasione affinché prenda forma un cammino.

Ma perché bisogna confessarsi con un presbitero? Molti cristiani dicono “Tanto Dio che tutto conosce, vede il peccato e vede anche il desiderio di pentimento!”; quindi, secondo costoro, sarebbe sufficiente rivolgersi direttamente a Dio.

La comprensione di questo dovere è un dono di grazia; è altrettanto vero però che Gesù stesso, nel rispetto pieno della nostra umanità, ha posto dei segni concreti. Nei Vangeli lo troviamo infatti che guarda con uno sguardo intenso, ascolta con profonda attenzione e infinita calma, parla con parole tenerissime in alcune occasioni e severe in altre, tocca mettendo fango sugli occhi, abbraccia, piange, insegna, partecipa alla festa. Dall’umanità di Gesù, dai suoi insegnamenti, dai suoi gesti noi impariamo a porre i medesimi gesti in ascolto delle sue parole.

Le persone che si affacciano parlano più di peccati o di problemi?

A volte è vero che le persone confondono la confessione con la seduta da un medico o da uno psicologo (so, per esperienze raccontate dai medici, che quando vanno da loro fanno altrettanto!), ma il punto è che nel racconto delle loro vicende, dove tutto si mescola, si impasta, si incarna, si trovano sofferenza, disagio, fallimenti, ricominciamenti, tentativi, peccati. È compito del confessore, con la grazia di Dio e le qualità umane di intelligenza, rettitudine ed esperienza, scoprire dentro queste storie i peccati. Tutto ciò va fatto nel corso di un cammino, con infinita pazienza, rispetto, verità, delicatezza e piccoli passi possibili: trovare il rimedio è un lavoro artigianale! E quando non si hanno risposte, ho imparato ad indirizzare i penitenti verso altri confratelli più esperti e più santi, accompagnandoli con la preghiera.

Pentimento, misericordia, giustizia… come tenere insieme queste esigenze?

Giustizia è verità! Se una persona viene al confessionale e confessa un furto, un adulterio, un aborto, gli si può soltanto dire, nella verità, che si è appropriato di qualcosa di non suo, che ha approfittato di una relazione non sua, che ha tolto la vita ad una creatura che chiedeva di nascere: non si può dissimulare né minimizzare. Alla verità delle parole però si deve accompagnare la misericordia del cuore, la tenerezza nei modi; altrimenti nell’animo del penitente risuona soltanto come un giudizio.

Una parola della formula dell’Atto di dolore sembrerebbe smentire la misericordia di Dio Padre; quando al penitente viene chiesto di dire: “peccando ho meritato i tuoi castighi …”. Ma Dio allora castiga?

No, mille volte no, Dio non castiga! Un padre o una madre può forse rinnegare un figlio che è carne della sua carne, è inscritto nel profondo del proprio dna? No, certo che no! Il castigo, quello che noi chiamiamo tale, è spessissimo la conseguenza del peccato dell’uomo.

Per te quali sono i gesti penitenziali più educativi ed efficaci da chiedere ai penitenti?

Da tempo oramai non chiedo ai penitenti solo di pregare, di dire qualche formula di preghiera (Pater, Ave, Gloria), in quanto la preghiera, sebbene presenti degli aspetti di dedizione, di fatica o di fedeltà, è anzitutto una grazia, un piacere, una sosta di riposo nella giornata. Ho imparato a chiedere un impegno che tocchi l’esistenza del penitente. A chi ha confessato l’aborto, un impegno a favore di un bambino; a chi ha rubato, un gesto di restituzione; a chi ha diffamato, un segno di amore gratuito. Insomma, chiedo dei gesti collegati alle opere di misericordia: visitare un ammalato, procurare la spesa ad una famiglia bisognosa, sbrigare qualche faccenda per un anziano.

Puoi raccontarci un episodio che ti ha particolarmente toccato?

Numerosi sono gli episodi, ovviamente; in particolare però ne ricordo due.

Uno fu un medico ginecologo che capitò al confessionale attirato dalla statua della Vergine degli Angeli, veduta passando in auto sulla superstrada che corre davanti ad Assisi. Dopo quarant’anni di pratica dell’aborto, confessò il suo peccato dicendomi, tra l’altro, che a sua moglie mai avrebbe chiesto di abortire; quella volta ebbi la consapevolezza che, attraverso le parole dette nel pianto di chi finalmente dà sfogo ad un cuore in cui per anni ha pigiato morte su morte, mi veniva affidata una infinita serie di persone mai nate; quell’uomo mi chiedeva di aiutarlo a portare un peso impossibile da sostenere da solo. E solamente la misericordia di Dio, che guarda ogni figlio nel suo Figlio pigiato sul legno della croce e ripresentato ogni giorno nel calice del sangue sull’altare, ha il potere di sciogliere e trasformare quegli orribili gesti.

Un’altra persona, un uomo che proveniva dalla campagna, per moltissimi anni, a causa di una questione di denaro, non era più riuscito a parlare con il fratello, pur vivendo porta a porta. Venne a confessare la sua durezza; tornato a casa, volle andare a porgere un saluto a quel fratello a cui tante volte aveva girato le spalle. Andò, e proprio quella notte morì. In pace.

In MISERICORDIA IO VOGLIO, di Adriano F. Bertero
dal n. 2/2016 della Rivista Porziuncola



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