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L’esortazione apostolica Gaudete et Exsultate di Francesco 30 Mag 2018

Santi, beati, umani

L’esortazione apostolica Gaudete et Exsultate, da poco pubblicata da papa Francesco, punta dritto al cuore dell’esistenza del cristiano. Non si tratta di un “aggiornamento” sul significato della santità nel mondo contemporaneo, quanto piuttosto un «far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità» (GE 2). È una lettera che merita di essere letta più volte per poter cogliere la portata di tante affermazioni che possono sembrare “a effetto”, e per lasciarsi guidare da connessioni di senso che aprono cammini di maturazione possibili e liberanti.

Il Papa ripete più volte che l’unica vocazione dei cristiani è quella alla santità, poiché «per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità» (GE 19). Insomma, la santità è la normalità del cristiano.

Lo sguardo della Chiesa, infatti, non è attratto da un punto di fuga appeso oltre la storia quotidiana degli uomini – come se i santi fossero di un altro mondo – al contrario, la realtà della santità parla di una realizzazione di sicuro ultima, ma che si gioca nella realissima cronaca di tutti i giorni. «Parla al cuore degli aneliti che lo assillano, delle radici che lo costituiscono, delle tensioni che lo lavorano, dei desideri che lo abitano» (Citterio).

Possiamo dunque domandarci se l’invito alla santità ci riguarda ancora (cf. GE 10), se ci lasciamo toccare dalla promessa di beatitudine che Gesù ha fatto ai suoi discepoli (cf. Mt 5) – crediamo ancora possibile il compimento dei desideri che portiamo in cuore? Crediamo ancora possibile una vita santa, fresca e vivace perché pienamente umana? La santità parla di quel mistero di riconciliazione in atto nella storia, nella carne della propria vita, perché risplenda per tutti la possibilità della visione dell’amore di Dio per l’uomo.

Quello che già siamo (cf. Ef 1; 1Gv 3,1-3), siamo chiamati a diventarlo sempre più “maturamente”: è tutto il senso della vocazione umana.

Ora, parole così altisonanti possono nascondere un’evidenza: santità non è sinonimo di selezione naturale. Non sono i forti o i privilegiati a diventare santi.

Non a caso fin da subito il Papa parla di una santità feriale e famigliare – una madre, una nonna (cf. GE 3), una «santità della porta accanto» (GE 7), la signora che va al mercato e ascolta suo figlio (cf. GE 16). Con il suo solito linguaggio immediato e ricco di immaginazione, il Papa fa risuonare in modo nuovo ciò che la Chiesa ha intuito fin dagli inizi: la santità è possibile e accessibile perché il nostro battesimo è vero e efficace; la verità di chi siamo è data da Cristo, che è diventato la radice della nostra umanità (Guardini).

Ne deriva che il dono della vita nuova al battesimo sia il dono di poter vivere la nostra umanità – la stessa che il Verbo ha assunto all’Incarnazione – in maniera santa, cioè secondo lo stesso orientamento dell’umanità di Cristo che è sempre rivolto verso il Padre e, contemporaneamente, verso i fratelli e le sorelle (cf. Mt 22,37-39).

La santità è dunque una «identificazione con Cristo e i suoi desideri» (GE 20). Vuol dire che il modo di realizzarci è esattamente quello di Cristo che ha fatto splendere l’amore del Padre per gli uomini al punto da guadagnarli al Padre come figli, e guadagnarli alle relazioni nuove come fratelli e amici.

È questo il dono della santità: la nostra umanità resa splendente e autentica dalla vita vissuta in carità. È l’amore realizzato (cf. GE 60-61).

Ne ricaviamo una deduzione. Questa vita è già presente e attiva in noi come un seme, e ha un’intelligenza e una prassi: si impara-conosce mentre si vive-pratica perché, appunto, è vita e non traguardi da raggiungere.

Potremmo dire che siamo come il figlio minore della parabola (Lc15) al mattino dopo la festa: dobbiamo imparare a vivere a partire dal dono ricevuto (cf. GE 56). «Lascia che la grazia del tuo battesimo fruttifichi in un cammino di santità» (GE 15). Questa dinamica di maturazione è continua e si esprime e rafforza attraverso ciò che la vita presenta – il suo stile, il ritmo e i suoi contenuti sono proprio quelli delle beatitudini (Mt5), poiché in esse si manifesta «il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita» (GE 63).

In effetti, quando Gesù proclama le beatitudini, chi ha in mente se non se stesso? Solo la sua umanità è, infatti, beata nelle situazioni drammatiche descritte dalle beatitudini, perché Egli non ha mai preferito se stesso all’amore del Padre per gli uomini. Perciò in ogni condizione che vive, Gesù gode della beatitudine di non smarrire mai l’orientamento della sua umanità: rivolto verso il Padre e verso i fratelli, simultaneamente.

Allora qual è la buona notizia per gli uomini? Le beatitudini sono dette in funzione del compimento della nostra umanità rigenerata al battesimo sull’umanità di Cristo. La gioia o beatitudine non deriva dalla condizione (non è l’afflizione che rende beati), ma dal poter attraversare ogni situazione rimanendo innestati in Cristo di cui condividiamo l’umanità (cf. Gal 2,20), lasciandosi vivere dalla sua umanità che è «sempre in stato di offerta» (Corbon), sapendo che questa è la verità della nostra.

«La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine» (GE 61). E in questo progressivo cammino tutto è lentamente assorbito nella vita nuova (cf. 2Cor 5,4): ogni sincera preoccupazione per gli altri, ogni atto d’amore per Dio, ogni generosa fatica, ogni dolorosa pazienza (cf. EvGaud 279).

Vengono inglobati perfino i fallimenti e le cadute (cf. GE 3), al punto che anche il peccato, che è il massimo fallimento, può essere convertito in benedizione attraverso il perdono.

Le beatitudini, in definitiva, riassumono tutte le condizioni in cui la vita può venirsi a trovare, sono come delle porte d’accesso al mistero di Dio che viene a noi e attraverso di noi vuol parlare al mondo (cf. GE 24), e non come delle richieste che Dio fa a noi per essergli graditi.

Stanno ad indicare che non c’è altro modo per godere la vita in pienezza se non nella condivisione in solidarietà con l’umanità di tutti. Non c’è altro modo per essere santi se non perseguendo l’opera di Dio in questo mondo che è la fraternità fra gli uomini. Perciò le beatitudini indicano ciò che è realmente in gioco: la nostra umanità resa aperta, relazionale, ecclesiale poiché vissuta secondo Cristo – non le nostre forze né i nostri ideali, ancor meno le nostre capacità (cf. GE 11).

«Non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il contrario, perché arriverai a essere quello che il Padre ha pensato quando ti ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere» (GE 32).

di Emanuele Rimoli OFMConv, docente di Antropologia teologica
per “San Bonaventura informa“ (Aprile 2018)



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