Continua il nostro cammino di conoscenza de “I giovani nella Bibbia” e lo facciamo attraverso la figura del Profeta Daniele. La prima tappa di questo percorso ci aveva portato a riflettere sulla figura di Geremia, scopriamo adesso come nel cammino del giovane Daniele ci si possono specchiare tanti giovani di oggi.
La violenza è un male endemico nell’umanità. Dalla violenza vigliacca tra le quattro mura di casa ai conflitti armati tra stati o blocchi politico-economici, la brutalità degli uomini macchia tutti. Anche istituzioni religiose, pur professando i sommi valori della comunione e della pace, si sono sporcate e continuano a sporcarsi del sangue innocente degli indifesi e a coprirsi dell’odore acre della polvere da sparo. La Bibbia non cela questa tragica realtà e testimonia il tentativo umano di trovarvi senso. Fin dalle sue prime pagine, non appena l’armonia del paradiso terrestre si rompe, inimicizia, dominio, fratricidio, odio, e vendetta invadono la terra (Gen 3–4). La realtà della violenza, tuttavia, suscita anche domande molto pratiche. Se la vendetta non fa altro che perpetuare e moltiplicare la violenza, come si può reagire? Che si può fare per fermare la violenza o almeno non trasformarsi in seminatori di morte e distruzione? Come si può essere parte attiva in un mondo violento senza esserne complici?
L’esilio e la violenza imperiale
Il libro di Daniele tenta di dare risposte a queste domande e propone concrete strategie d’azione. I primi sei capitoli di questo libro sono una collezione di sei brevi racconti che hanno per protagonisti quattro giovani ebrei: Daniele, Anania, Misaele, e Azaria. Alla caduta di Gerusalemme per mano del re babilonese Nabucodonosor, i quattro vengono portati esuli a Babilonia e scelti per entrare nelle fila dei funzionari reali. Nell’immaginario del popolo ebraico, l’esilio babilonese era uno dei simboli più potenti. L’esilio determinò la fine di ogni pretesa di autonomia politica per Giuda, un piccolo territorio ai margini dei grandi centri del potere politico e militare. Gli ebrei coltivarono per secoli sogni di una restaurazione dell’antico regno davidico, ma rimasero sempre sotto il controllo dei vari imperi che si susseguirono attorno al Mediterraneo. In un certo senso, il ritorno da Babilonia non pose realmente fine all’esilio. Gli ebrei continuarono a sperimentare l’oppressione straniera, esuli nella propria terra. È per questa carica simbolica dell’esilio che il libro di Daniele sceglie la corte di Nabucodonosor e dei suoi discendenti per parlare della violenza imperiale, della violenza di ogni impero. Una possibile risposta all’oppressione straniera è certamente la rivolta armata. Questa fu la via scelta, per esempio, dai Maccabei contro il regno greco dei Seleucidi nel II secolo a.C. o dagli zeloti contro Roma nella Guerra Giudaica nel I secolo d.C. Il percorso tracciato dal libro di Daniele è esattamente l’opposto: la resistenza passiva della non violenza. Il giovane Daniele rifiuta la via dell’aggressione e tenta di trovare posto nel sistema imperiale senza dover compromettere la sua libertà di coscienza. Il libro di Daniele è un tentativo originale di creare strategie d’integrazione per il popolo ebraico in un mondo multi-culturale e multi-religioso. Un’integrazione che preservi la fedeltà all’unico Dio creatore e salvatore. Un’integrazione, tuttavia, faticosa e a volte rischiosa.
Una dieta vegetariana
Daniele e i suoi compagni sono selezionati tra i giovani d’Israele per essere istruiti nella scrittura e nella lingua di Babilonia (Dan 1). Questo è un grande onore che viene sottolineato con l’assegnazione di una razione giornaliera di vivande dalla tavola del re. Nasce però il problema che il cibo del re, in particolare la carne, non rispetta le norme alimentari d’Israele. I quattro giovani si trovano tra due fuochi: rifiutare le vivande, insultando così il re apertamente e avviando un conflitto, o trasgredire le leggi d’Israele, di fatto rinunciando alla loro identità e alla loro fede. Il giovane Daniele propone di tentare una dieta vegetariana di nascosto dal re, così da evitare il conflitto e, al tempo stesso, rimanere fedele alla legge di Dio. Questa soluzione viene benedetta da Dio, che rende le facce dei quattro giovani più belle e più floride di tutti gli altri che mangiano la carne dalla tavola del re, e così dà copertura allo stratagemma di Daniele. In superficie, la dieta vegetariana proposta da Daniele sembra una semplice osservanza religiosa, ma rappresenta in realtà una denuncia della violenza imperiale in chiave simbolica. Che ne siamo consapevoli o meno, tutte le scelte alimentari hanno una valenza simbolica molto profonda che spiega, tra l’altro, anche l’importanza delle norme alimentari come espressione religiosa. L’alimentazione è un sistema di comunicazione tramite cui annunciamo, a bocca chiusa, chi siamo e ciò in cui crediamo, a volte anche quello di cui soffriamo. Non a caso tendiamo a identificare gruppi etnici, geografici, culturali e sociali con il cibo che mangiano. In particolare, il rifiuto di mangiare è una forma di protesta, un modo per esprimere il nostro malessere, sia esso fisico, psicologico, sociale, o culturale. Nel mondo antico, la carne era simbolo di potere, forza, virilità, e anche violenza. Non, come legittimamente si pensa oggi, per la sofferenza causata agli animali, ma perché l’accesso alla carne era un tratto distintivo degli uomini ricchi e potenti della classe dominante e ne simboleggiava il dominio. Le donne, anche benestanti, e gli uomini delle classi inferiori avevano accesso alla carne molto raramente. Il libro della Genesi associa il vegetarianismo alla condizione paradisiaca: “Dio disse: ‘Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero che produce seme: saranno il vostro cibo. A tutti gli animali selvatici, a tutti gli uccelli del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è alito di vita, io do in cibo ogni erba verde” (Gen 1,29). Isaia presenta una simile visione ideale di leoni mansueti che brucano l’erba accanto a vitelli (Is 11,6–8; 65,25). Non c’è violenza. Non c’è paura. Non si mangia carne. Al contrario, l’introduzione della carne nella dieta umana è associata all’inizio della violenza tra gli uomini. L’uccisione di Abele e l’incredibile violenza di Lamec, “Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido” (Gen 4,23) portano Dio a dire a Noè: “È venuta per me la fine di ogni uomo, perché la terra, per causa loro, è piena di violenza” (Gen 6,13). Solo con la fine del diluvio, Dio, ormai rassegnato alla violenza umana, concede a Noè di cibarsi di carne: “Ogni essere che striscia e ha vita vi servirà di cibo: vi do tutto questo, come già le verdi erbe” (Gen 9,3). Dio pone tuttavia una condizione, che nessuno mangi la carne “con il suo sangue” (Gen 9,4), a perenne memoria che la carne è legata alla violenza umana. Quando il giovane Daniele e i suoi compagni rifiutano di mangiare la carne dalla tavola di Nabucodonosor, non si tratta semplicemente di una pratica religiosa, ma del rifiuto della violenza imperiale che quella carne rappresenta. Il sangue di cui quella carne non è stata ritualmente purificata rappresenta il sangue che la spada imperiale ha versato e continua a versare. Daniele accetta le verdure da quella stessa tavola, perché queste sono simbolo di pace e armonia, ma ne rifiuta la carne che è simbolo di violenza e morte. Così accetta di cooperare con il re nella costruzione del regno, ma si rifiuta di macchiarsi del sangue delle sue vittime.
In DIRE CRISTO, a cura di Georges Massinelli
dal n. 2/2018 della Rivista Porziuncola
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