C’è bisogno di artigiani di pace! Così il Santo Padre inaugura il capitolo settimo della Fratelli Tutti, auspicando la creazione di sentieri irenici tali da rimarginare le ferite inflitte finora dalla sopraffazione e dai vari conflitti e tracciando percorsi «di rinnovato incontro con ingegno e audacia» (n. 225) Suddetti sentieri di pace escludono due situazioni estreme che si presentano come soluzioni a problemi particolarmente drammatici ma che, in realtà, sono delle false risposte in quanto non solo i suddetti problemi rimangono insoluti, ma «non fanno che aggiungere nuovi fattori di distruzione nel tessuto della società nazionale e mondiale» (n. 255). Le due situazioni estreme sono: la guerra e la pena di morte.
Relativamente alla seconda misura punitiva, avente come obiettivo l’eliminazione dell’altro, ridotto esclusivamente al male da lui commesso, in definitiva, al suo peccato, si era già chiaramente pronunciato san Giovanni Poalo II, ribadendone l’inadeguatezza sul piano morale e la necessità di una totale abolizione (cf. EV 56), nonché ancorando la sua posizione al Catechismo della Chiesa Cattolica 2267 che recita: «se i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere le vite umane dall’aggressore e per proteggere l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone, l’autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana». La punizione inflitta al reo, infatti, deve mirare alla redenzione e alla rieducazione dello stesso, non alla sua eliminazione, attraverso la comminazione di pene proporzionate alla gravità delle colpe commesse, seguendo la logica evangelica che punisce il peccato e non toglie di mezzo il peccatore.
In FT 265, Papa Francesco mostra come sin dai primordi della Chiesa, alcuni si mostrarono apertamente contrari alla pena capitale, quali, a esempio, Lattanzio, scrittore e retore romano, di fede cristiana, vissuto a cavallo tra il III e i IV sec.: «non va fatta alcuna distinzione: sempre sarà un crimine uccidere un uomo» (div. inst. VI, 20, 17). O, anche, Papa Nicola I, vissuto nel IX sec., che esortava: «Sforzatevi di liberare dalla pena di morte non solo ciascuno degli innocenti, ma anche tutti i colpevoli» (ep. 97, 25). Tra i due, cronologicamente, si leva la voce di sant’Agostino, citato direttamente dal Santo Padre.
Un episodio di cronaca nera
Egli, indirizzando una lettera (ep. 133) al commissario imperiale Marcellino, lo implora di non comminare la pena di morte a omicidi donatisti che avevano sottoposto Restituto e Innocenzo, due preti cattolici della diocesi d’Ippona, barbaramente uccisi (sembrerebbe anche dallo stesso Donato, iniziatore del movimento omonimo), facendo leva sulla sua umanità (humanitati memineris) e sulla sua fede cristiana (quoniam christiano loquor, n. 3). Il contesto della lettera è, dunque, quello che vede una chiesa cattolica sotto minaccia a motivo del movimento donatista che, nonostante le condanne ufficiali reiterate dall’imperatore Onorio nel 405, imperversavano forti e aggressivi ovunque in Africa, anche a Ippona, anche intorno al 411, anno presunto in cui la lettera è databile.
Detto movimento ereticale si alimentò al forte sentimento antiromano che da sempre aveva contraddistinto il cristianesimo africano e che spinse molti a sentire come un tradimento la buona accoglienza che la Chiesa aveva fatto alla nuova politica inaugurata da Costantino. I donatisti affermavano di costituire la chiesa dei puri, dei martiri, desiderosi di un martirio che non arretrava nemmeno davanti al suicidio. Chiesa incontaminata, cioè «pura dal peccato che preservava la purità liturgica astenendosi da ogni rapporto contaminante con i cattolici e con il potere imperiale che li appoggiava, sostenendo tale separazione con la riproposizione del modello biblico dell’antico Israele che si manteneva puro e fedele a Dio in mezzo alle nazioni che praticavano l’idolatria» (A. M. Castagno). In particolare gli omicidi in questione appartenevano a una frangia violenta dei donatisti, detti “circoncellioni” (da circum “intorno” e cella “abitazione”), per lo più di razza punica, che in Africa, col nome di “soldati di Cristo”, “figli di santi” e agonistae, e al grido di Deo laudes, si abbandonavano al saccheggio delle chiese e dei beni dei cattolici, non indietreggiando neanche di fronte alla morte, con la speranza di guadagnarsi la fama di martiri. Essi, infatti, «vanno in giro e circondano le abitazioni. Si spostano infatti da un luogo all’altro e non hanno alcuna sede fissa» (en. Ps. 132, 3).
Gli argomenti contro la pena di morte
Di fronte alla barbarie perpetrata a danno dei preti cattolici, Agostino, in preda alla più viva sollecitudo, vorrebbe assolutamente evitare che si infliggessero ai rei le medesime pene che essi hanno ingiustamente inflitto ai due servi di Dio. Teme l’applicazione della legge del taglione (“occhio per occhio, dente per dente”), mettendo in atto una vendetta con supplizi simili. Ciò, tuttavia, non a discapito di una giusta punizione che Agostino riconosce essere doverosa. Scrive, nella fattispecie: «Non che vogliamo con ciò impedire che si tolga a individui scellerati la libertà di commettere delitti, ma desideriamo che allo scopo basti che, lasciandoli in vita e senza mutilarli in alcuna parte del corpo, applicando le leggi repressive siano distolti dalla loro insana agitazione per esser ricondotti a una vita sana e, tranquilla, o che, sottratti alle loro opere malvage, siano occupati in qualche lavoro utile. Anche questa è bensì una condanna, ma chi non capirebbe che si tratta più di un benefizio che di un supplizio, dal momento che non è lasciato campo libero all’audacia della ferocia né si sottrae la medicina del pentimento?» (ep. 133, 1).
Un pensiero improntato sulla misericordia di un Dio che in Gesù aveva detto: «Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio» (Mt 5,38s), facendo intendere che, se l’antica legge del taglione (cf. Es 21,23-25; Lv 24,19-20; Dt 19,18-21) voleva essere un superamento del principio della vendetta indiscriminata (cf. Gen 4,23-24), ora, con Gesù che promuove la vita fraterna, affascinante ma esigente, occorre strappare dal cuore la radice stessa della vendetta, per giungere fino all’amore del nemico, imitando Dio. Similmente il vescovo di Ippona, figura simbolica di Dio Padre (già così dai tempi di Ignazio di Antiochia; cf. Magn. 3,1), non può che auspicare un cammino di redenzione, innanzitutto raccomandando con alacrità a Marcellino di sdegnarsi contro l’iniquità senza dimenticare l’umanità, di preferire la voluntas di curare le ferite dei peccatori alla libido della vendetta atroce, dove il vendicare è detto con un gerundio genitivo (ulciscendi, da ulciscor) che richiama, in italiano, l’ulcera, un’erosione del rivestimento interno dello stomaco che, discorso medico a parte, mostra il potere corrosivo e non sanante della vendetta. Se la raccomandazione non bastasse, allora, Agostino si appellerebbe (e di fatto lo fa) alla sua autorità di vescovo che, interloquendo con un cristiano – qual è Marcellino – gli ordina di desistere dalla sua volontà punitiva anche per non vanificare il sacrificio dei due preti che, uccisi in odium fidei, sono stati insigniti del privilegio del martirio: «Non vogliate, punendo i nemici con le stesse sevizie ch’essi fecero soffrire, offuscare i patimenti dei servi di Dio cattolici che devono essere utili ai deboli per la loro edificazione spirituale» (ep. 133, 1).
E se di martirio esplicitamente non si parla, facilmente vi si può risalire, visto che la morte ingiusta e cruenta dei due servi di Dio e finalizzata ad aedificationem spiritalem come, in passato, il racconto del martirio di Perpetua e Felicita (martiri cartaginesi di III sec. a cui lo stesso Agostino dedicò tre bei sermoni) che – si legge nell’epilogo – fu vergato in aedificationem ecclesiae. Essa è ora indicata da Agostino nei deboli che, sconvolti dalla morte dei presuli, rimarrebbero ancora più turbati dall’ulteriore spargimento di sangue dei rei. Chiedere, dunque, il perdono del colpevole non significa approvarne le colpe, ma piuttosto, scrive altrove l’Ipponense, intorno al 412, che: «siamo spinti dall’amore per il genere umano affinché la loro vita terrena non finisca con un supplizio, che dopo la fine della vita non avrà mai fine» (ep. 153, 3). La consapevolezza della debolezza umana spinge a stemperare la severità accanita (dolor) dell’accusatore e il rigore del giudice, in modo che la pena prodesse possit, risulti efficace e procuri beneficio, non altra morte (cf. ep. 153, 6,17).
Amare i nemici
Il pensiero di Agostino, quindi, è chiaro: bisogna evitare la pena di morte non per un malcelato irenismo, ma in forza dei dettami evangelici che comandano di “amare i nemici”, non per se stessi, né per lasciarli tali, ma perché il Padre in loro intravede dei suoi figli, come il falegname che nel tronco di legno già intravede una sedia comoda e intarsiata su cui accomodarsi nei momenti di fatica. Scrive, a proposito, Agostino nel commento alla lettera di Giovanni: «Tu vedi il nemico che ti avversa, ti aggredisce e ti morde colle sue parole, ti esaspera coi suoi insulti, non ti dà pace col suo odio. Ma in lui tu vedi un uomo. Tu vedi tutte queste cose, che ti contrastano, fatte da un uomo; ma vedi in lui ciò che è stato fatto da Dio. Il fatto che egli è creatura umana, proviene da Dio. Il fatto che ti odia e ti invidia proviene da lui. Che cosa dici nel tuo animo? “Signore, sii a lui propizio, perdona i suoi peccati, incutigli terrore, cambialo”. Non ami in lui ciò che è, ma ciò che vuoi che divenga. Perciò quando ami il nemico, ami il fratello. Di conseguenza il perfetto amore è l’amore del nemico: e questo perfetto amore è incluso nell’amore fraterno» (Io ep. tr., 8,10).
Inoltre, aggiunge, commentando il salmo 99, che l’amore al nemico ci mette al sicuro del nemico stesso: «Impara ad amare il nemico, se vuoi essere al sicuro dal nemico. Fa’ crescere in te la carità, la quale ti plasmi e restauri secondo l’immagine di Dio. Quando la tua carità si estenderà fino ai nemici, tu diverrai simile a colui che fa sorgere il suo sole, non sui buoni soltanto, ma sui buoni e sui cattivi, e che piove, non soltanto sul campo dei giusti, ma sul campo dei giusti e dei peccatori. In questa maniera, quanto maggiori saranno i tuoi progressi nella carità, tanto più rassomiglierai a Dio» (en. Ps. 99,5).
In ultimo, ricordiamo come Agostino raccomandi la mitezza in tali questioni per non lasciare campo libero alla saeviendi audacia (dirompenza della crudeltà) e consentire, invece, il ricorso alla poenitendi medicina, farmaco di misericordia, porto sicuro in cui approdare quando siamo in preda alla disperazione (cf. s. 352,3,9). E non lo fa a titolo personale ma in nome di quella Chiesa che lui presiede, onorata del titolo di mater mansuetudinis (cf. ep 133,3), la medesima chiesa cattolica che oggi, in merito alla pena di morte, «si impegna con determinazione a proporre che sia abolita in tutto il mondo» (FT 263).
In FRATELLI TUTTI, a cura di Graziano Maria Malgeri
dal n. 4/2021 della Rivista Porziuncola
photo credit: Lucio Patone su Unsplash
Graziano Malgeri Pace Rivista Porziuncola Sant’Agostino
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