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Il punto della situazione con “Aiuto alla chiesa che soffre” 31 Dic 2018

Il Natale dei cristiani perseguitati

Ci sono cristiani per cui il Natale rappresenta più che per altri un momento di gioia e di rinascita. Sono i cristiani perseguitati, che in tanti Paesi nel mondo sono costretti a pagare a caro prezzo la propria fede in Dio.

Sono ormai molti anni che in Iraq il Natale non si festeggia più come una volta. Dall’inizio della guerra nel 2003, l’insicurezza ha costretto la comunità a rinunciare prima al falò del 25 dicembre e poi alla messa di mezzanotte del 24. Col tempo albero e presepe hanno trovato spazio soltanto nel chiuso delle case o delle chiese, perché come raccontavano in molti «per festeggiare il Natale in Iraq, devi prima chiudere bene la porta».

L’arrivo dello Stato Islamico nel giugno 2014 ha reso la situazione ancor più drammatica, costringendo più di 125mila fedeli a fuggire da Mosul e dalla Piana di Ninive per rifugiarsi nel Kurdistan iracheno. Ma per tante famiglie questo sarà un Natale di rinascita. Perché nella Piana di Ninive, e in particolar modo nella cittadina di Qaraqosh, circa il 50% dei cristiani hanno potuto far ritorno alle loro case. E dopo la distruzione e l’orrore portato da Isis, la gioia del Natale tornerà per le strade di quei villaggi che hanno conosciuto la presenza cristiana fin dai primi secoli. Strade che sono già pervase dall’inconfondibile profumo dei kleicha, i tipici dolci natalizi ripieni di datteri. Anche in Siria questo sarà un Natale più gioioso. Dopo quasi otto anni di guerra, ogni famiglia porta la propria ferita e sono moltissimi i cristiani che hanno abbandonato il Paese. Si stima infatti che se prima del 2011 la comunità rappresentasse circa il 10% della popolazione, oggi raggiunga a stento il 3%.

Se le bombe tacciono in gran parte della Siria, tante famiglie cristiane devono fare i conti con la disoccupazione, la mancanza di una casa, la miseria e l’alto costo dei beni alimentari. Ma anche in queste gravi condizioni, in tanti luoghi si festeggerà con serenità e molti bambini nati durante la guerra, scopriranno la gioia del Natale. Pressoché stazionaria, invece, la situazione in Nigeria. Dove da anni le festività religiose cristiane sono state insanguinate da feroci attacchi. I metal detector all’ingresso delle chiese non donano alcuna sicurezza ai fedeli che pure partecipano numerosi alle funzioni. «Se devo morire - afferma la signora Mary Nwachukwu, di Maiduguri - preferisco che sia nella casa di nostro Signore». Difficile anche il Natale dei pochi cristiani rimasti in Terra Santa. L’instabilità della regione e la disoccupazione hanno fatto sì che la comunità, che fino al 1947 rappresentava circa il 20% della popolazione, oggi raggiunga a stento il 2%. Le uniche possibilità di impiego sono nel settore turistico e nella realizzazione di articoli sacri in legno d’ulivo e madreperla: un’antica tradizione importata dai padri francescani nel XV secolo.

Il negozio di souvenir della Chiesa della Natività di Betlemme, che la famiglia di Victor Tabash possiede dal 1937, è un laboratorio che permette di vivere a ben 46 famiglie cristiane. Ma con i continui scontri tra Israele e Palestina il turismo è nettamente diminuito e i negozi cristiani di articoli religiosi sono ormai vuoti. «Anche questo sarà un Natale difficile, ma non abbandoneremo la Terra Santa», afferma Tabash. In Pakistan le famiglie cristiane stanno già preparando i pacchi dono per Natale: frutta e dolci, con qualche attenzione in più per le famiglie povere che ricevono anche zucchero, riso e carne. Piccola minoranza - appena il 2% - in un Paese a netta maggioranza musulmana, i cristiani pachistani appartengono spesso alle fasce più basse della società: una sorte difficile da cambiare dal momento che a causa del loro credo sono discriminati anche in ambito lavorativo. Nelle aree più sicure del paese, i ragazzi allietano il tempo dell’Avvento andando in ogni casa cristiana per cantare i canti natalizi. Zayn Yousuf, 17 anni di Jhelum nel Punjab, ci racconta di quanto sia orgoglioso di guidare il coro della sua parrocchia. Questo sarà il primo Natale in libertà per Asia Bibi. Dopo 3.420 giorni di carcere, il 31 ottobre scorso la Corte Suprema ha deciso di assolvere la donna cristiana condannata a morte per blasfemia.

 Era il 14 giugno del 2009 quando nei dintorni del paesino di Ittanwali, nel distretto di Sheikpura nella provincia pachistana del Punjab, Asia, stava raccogliendo delle bacche assieme ad altre braccianti. Le viene chiesto di andare a prendere l’acqua e in una calda giornata estiva lei ha l’ardire di bere da un bicchiere di latta trovato accanto al secchio. «Non puoi bere l’acqua dal nostro bicchiere, i cristiani sono impuri e non devono bere dagli utensili dei musulmani», le gridano alcune donne musulmane che lavoravano con lei. Asia si difende e ne nasce un piccolo alterco. Tutto sarebbe finito lì se non fosse che due delle donne musulmane, si recano da un imam locale, il quale - ben cinque giorni dopo l’accaduto e senza aver assistito al fatto - presenta una denuncia per blasfemia a carico di Asia accusandola di aver offeso il Profeta Maometto, un reato che il codice penale pachistano - articolo 295 comma C - punisce con la condanna a morte. Inizia un calvario senza fine. In carcere Asia viene violentata, insultata, picchiata. Le viene chiesto più volte di rinunciare alla sua fede cristiana in cambio della libertà, ma lei rifiuta ogni volta con fermezza. Asia viene condannata a morte per impiccagione nel novembre 2010. La sentenza è confermata in appello il 16 ottobre 2014. Poi nel luglio 2015 la Corte Suprema accetta il ricorso presentato dal collegio difensivo di Asia e sospende la condanna a morte fino alla sentenza in ultimo grado. Da qui, una serie estenuante di rinvii. Fino all’udienza dell’8 ottobre 2018.

Asia è uscita dal carcere di Multan il 9 novembre e da allora si trova in regime di sicurezza assieme al marito Ashiq. Non ha ancora potuto riabbracciare le sue due figlie, Eisham ed Esha, che vivono assieme a Joseph Nadeem, l’uomo che sin dalla condanna della donna cristiana per blasfemia si è preso cura della famiglia e ha tenuto i rapporti con i legali, essendo Asia e il marito quasi analfabeti. Asia è fortemente preoccupata per le figlie, le quali non hanno alcun tipo di protezione e sono state costrette a cambiare più volte abitazione assieme a Nadeem e alla sua famiglia. «Non appena Asia è stata assolta siamo dovuti fuggire - ha raccontato l’uomo ad Aiuto alla Chiesa che Soffre -. Gli islamisti ci danno la caccia ed ogni volta che ci accorgiamo di essere in pericolo scappiamo immediatamente. Non possiamo neanche andare a comprare da mangiare». La retorica che si è scatenata in seguito all’assoluzione di Asia è feroce. In migliaia tramite social e manifestazioni hanno invocato l’impiccagione della donna e minacciato di morte i giudici che l’hanno assolta. Asia e suoi familiari sanno perfettamente che per loro non c’è futuro in Pakistan. La donna rischia di essere uccisa, come accaduto a molti presunti blasfemi freddati in strada una volta assolti o linciati prima di poter avere un regolare processo. Ma al momento è impossibile lasciare il Paese.

Per sedare le gravi agitazioni emerse in seguito alla sentenza di assoluzione, il governo pachistano ha infatti deciso di accogliere una petizione presentata da alcuni movimenti islamisti che chiedevano il riesame della sentenza. Questo sarà per lei un Natale finalmente in libertà, durante il quale poter esprimere, per la prima volta dopo nove anni, la propria fede in libertà. Ma sarà ancora un Natale di incertezza, di paura e soprattutto lontano dalle sue figlie.

Per approfondimenti visita la pagina della rivista SBi



Aiuto Chiesa Guerra Natale Sofferenza Solidarietà

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