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Intervista a p. Salvatore Morittu ofm, fondatore e animatore 13 Gen 2018

La bella ventura di Mondo X

Com’è cominciata questa bella avventura di carità?

Nel modo meno previsto dai nostri programmi, ma certamente ben chiaro in quelli di Dio. Ero infatti rientrato in Sardegna a fine estate 1978 dopo aver concluso gli studi di Psicologia all’Università statale di Roma: avevo trovato insegnamento di Psicologia in un istituto magistrale di Cagliari e curavo la pastorale giovanile della Provincia. In novembre il padre Provinciale, p. Dario Pili, partecipa ad un incontro della COMPI (Conferenza dei Ministri Provinciali d’Italia) durante il quale il p. Eligio Gelmini, nostro confratello della Lombardia, getta sul tavolo della riflessione quella che lui definiva la più grande rivoluzione in atto: la droga e la situazione dei giovani schiavi dell’eroina.

Una sfida che doveva trovare noi Francescani in prima linea sull’esempio di Francesco che abbraccia il lebbroso e inizia con lui una relazione destinata a convertire entrambi ad una dimensione di vita più libera e autentica. La modalità più efficace per il p. Eligio era l’accoglienza e la condivisione totale della vita in una comunità: per questo ne aveva già realizzate due nella Lombardia. Il p. Dario mi consegna la cartella dove p. Eligio aveva steso un progetto: realizzare in ogni Provincia francescana d’Italia una comunità in aiuto ai tossicodipendenti e con almeno un frate ad essa destinato a tempo pieno. Per il metodo proponeva quello di Mondo X, l’Associazione da lui creata a Milano.

Sebbene non avessi mai avuto esperienza con il mondo della droga, p. Dario mi propose di fare un’esperienza di due mesi in una delle comunità di p. Eligio, per poi decidere se anche in Sardegna noi francescani potevamo impegnarci in questo nuovo servizio all’uomo. Il positivo esito del mio tirocinio e la riflessione coinvolgente cui p. Dario sottopose tutti i frati, giunsero all’approvazione e alla creazione della prima comunità in un nostro convento, quello di San Mauro a Cagliari nel gennaio 1980. Allora in Sardegna non c’era nessuna iniziativa né del servizio pubblico né del privato sociale in aiuto ai tossicodipendenti. E neppure come frati avevamo mai intrapreso un progetto di evangelizzazione così ricco di novità e irto di difficoltà.

Più carità cristiana o un impellente bisogno di camminare accanto all’uomo ferito?

La persona del tossicodipendente ha una “malattia” che è un’autentica congestione esistenziale: se sai andare oltre le definizioni dei manuali, dei pregiudizi della gente, e dei comportamenti quasi “diabolici” che talvolta utilizza, scopri una persona bramosa di amore come un mistico. Solo che, diversamente da questo, invece di usare lo strumento lungo e severo ma sano dell’”ascesi”, utilizza sostanze che accorciano lo spazio e il tempo e lo proiettano nella dimensione di un piacere totalizzante quanto poi effimero e doloroso perché lo rende schiavo di quella sostanza e di quei comportamenti. Il resto non conta più nulla. Questa persona ci interpella come uomini e come cristiani: lui cerca ragioni per vivere, cerca valori per i quali meriti combattere e soffrire perché capaci poi di farti sentire realizzato. Chi ha sposato il Vangelo della carità, come il cristiano, sa che una volta curate le ferite del corpo è indispensabile andare al cuore del problema: amare e sentirsi amato. “Questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato”, disse Gesù. È questa la tensione amorosa del cristiano e ancora più del francescano.

A chi vi rivolgete prevalentemente?

Negli anni ’80 la droga pesante più diffusa era l’eroina e le persone che ne facevano uso avevano una età media tra i venti e i trent’anni. Successivamente si è avuto il picco della cocaina: gli assuntori sono sempre più giovani, 15 o 16 anni, ma si inseriscono prepotentemente gli adulti: persone che cominciano a far uso di droga dai 40 anni in su ed evidentemente con motivazioni diverse da quelle dei giovanissimi. Infine da circa dieci anni si sta verificando una lievitazione esponenziale della ludopatia, cioè dei dipendenti da giochi d’azzardo. Si tratta di una dipendenza senza sostanza che ci fa ben capire quanto può essere determinante la sola forza del “pensiero”, di un’”idea” dominante.

Paradossalmente è la stessa forza capace di ridare libertà a chi è schiavo di ogni dipendenza: recuperare è infatti incidere con un “pensiero forte” sulla propria identità. Alle droghe illegali si è sempre accompagnata una “droga legale”: l’uso smisurato dell’alcool sia in fase adulta che giovanile, sia come droga di ingresso che come droga delle possibili ricadute. L’alcoolismo è una delle dipendenze più “anguillose” data la facilità di reperire la sostanza e le difficoltà ad accettare un percorso di recupero. A queste dipendenze già drammaticamente schiavizzanti, si aggiunge il fatto che un 20% di queste persone hanno contemporaneamente una diagnosi psichiatrica (“doppia diagnosi”) per cui è necessario un percorso anche con l’aiuto dello psichiatra e spesso di un supporto farmacologico.

Quante persone accogliete e in quante strutture?

Due anni dopo la creazione nel 1980 della prima Comunità presso il nostro convento di San Mauro a Cagliari, nel 1982, l’Arcivescovo di Sassari ci ha dato in uso un’azienda agro-pastorale dove abbiamo realizzato la comunità di S’Aspru a Siligo (Sassari). Nel 1985 la Regione Sardegna ci ha messo a disposizione una scuola professionale abbandonata con 35 ettari dove abbiamo avviato la Comunità di Campu ‘e Luas in agro di Uta (Cagliari). Come percorso propedeutico all’inserimento in comunità, abbiamo creato due centri di accoglienza, uno a Cagliari e uno a Sassari, i quali curano anche progetti di prevenzione sul territorio e gli interventi sulle famiglie. In ciascuna struttura accogliamo non più di 30 persone: è il numero più adeguato per riuscire a realizzare un contesto che armonizzi l’aspetto disciplinare con un sentire di famiglia valorizzando la dimensione affettiva. Dall’inizio a oggi abbiamo accolto oltre 3500 persone, prevalentemente maschi.

Vi interessate anche di malati di AIDS?

Nel 1985 abbiamo avuto in Sardegna il primo morto di AIDS, ed era proprio un ragazzo che viveva nella nostra Comunità di S’Aspru. Da allora abbiamo sempre accolto sieropositivi all’HIV e malati di AIDS. Da vent’anni nel nostro convento di S. Antonio abate a Sassari, abbiamo creato una Casa Famiglia solo per i malati gravi di AIDS: è ancora l’unica in Sardegna e ha i suoi 12 posti sempre occupati. Con loro, oltre agli operatori laici, vivono anche 4 suore dell’Istituto Suore di San Francesco di Assisi. I malati di AIDS, “poveri tra i più poveri”, sono sorgenti ispiratrici di amore ancora più profondo perchè capaci di rappresentarci nei loro volti e nei loro corpi una presenza privilegiata e raffinata del nostro Cristo.

Le comunità, civile ed ecclesiale, vi hanno sostenuto?

Questo nostro impegno con i tossicodipendenti e con i malati di AIDS rientra tra le opere della nostra Custodia di frati minori, con un suo strumento operativo che è “L’Associazione Mondo X – Sardegna ONLUS” che ha come soci di maggioranza noi frati minori. Naturalmente godiamo del supporto di un numeroso gruppo di volontari e della benevolenza e stima di tanta gente della nostra Isola. Questo ci permette da 37 anni di andare avanti senza ricevere finanziamenti pubblici (rette delle ASL) e senza chiedere niente alle famiglie di coloro che accogliamo. Contiamo invece sulla Provvidenza di Dio (che si fa toccare ogni giorno), sul nostro lavoro e sull’aiuto della gente: il necessario non ci è mai mancato! Questa libertà rispetto ai finanziamenti pubblici ha un suo prezzo, ma rende il nostro operare più agile e più attento ai bisogni delle persone piuttosto che essere fagocitati da una defatigante macchina burocratica per la quale i numeri valgono più delle persone.

In questi ultimi anni affiora sovente l’appello a valorizzare la donna nelle varie componenti della Chiesa; oltre a te, che sei presbitero e, ad altri religiosi coinvolti nella struttura, è presente e se sì, in che modo la figura femminile? Qual è la tua esperienza in proposito?

Per chi lavora col volontariato sa bene che la presenza femminile è sempre più numerosa di quella maschile. Le donne ci testimoniano una capacità oblativa straordinaria e, una acuta capacità analitica nell’affrontare le situazioni anche complesse. In tutti i ruoli di responsabilità ho avuto l’opportunità di inserire delle donne e con efficaci risultati. Certo, per loro, come per i maschi, è indispensabile una formazio- ne permanente che garantisca un’adeguata coesione circa gli ideali che professiamo e la prassi quotidiana. Per tutti è necessario un grande equilibrio psico-affettivo stante la delicatezza e la complessità delle problematiche che investono le persone che si rivolgono a noi. Anche nell’accoglienza per il recupero sono stato sempre favorevole alle comunità miste: sappiamo bene che il “fantasma della donna” può essere più pericoloso della sua presenza fisica. Ma nello stesso tempo è indispensabile curare delle relazioni franche e leali e un equilibrato dominio di sé.

In oltre 35 anni di diaconia sono state più le gioie o più gli ostacoli?

Né io né chi condivide questa frontiera siamo eroi né vogliamo in alcun modo alimentare tale immagine. Certamente però è un impegno molto coinvolgente e defatigante perché si cammina su un confine sottile tra vita e morte, e sempre con una umanità segnata da fragilità di corpo e di spirito. Le sconfitte, le delusioni e le ingratitudini sono sempre lì a mettere alla prova le motivazioni che sottendono questa scelta di vita. Ma la consapevolezza di spendere la propria vita per accogliere, accompagnare e condividere autentiche esperienze di Esodo, di passaggi “pasquali” da schiavitù a libertà, da realtà di morte a quella di risorti, fa sentire quella profonda gioia che Dio sa donare quando si condivide la missione del suo Figlio: non perdere nessuno perché la gloria di Dio è l’uomo vivente.

In DIRE CRISTO, a cura di Adriano Bertero
dal n. 2/2017 della Rivista Porziuncola



Mondo X Rivista Porziuncola Salvatore Morittu Sardegna

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