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Frate Guglielmo di Rubruc di Rino Bartolini 24 Apr 2023

Una nuova missione verso l’estremo Oriente

Già frate Giovanni da Pian del Carpine nel 1245 era stato mandato da papa Innocenzo IV) come ambasciatore alla corte dei Mongoli: nella speranza che il Gran Khan Guyuk, abbandonati i massacri dei villaggi cristiani, lasciasse liberi i prigionieri e si convertisse al cristianesimo. Il principio, più tardi formulato, cuius regio eius religio, prevedeva infatti che un impero seguisse la religione di chi ne era a capo: quindi, convertendosi il Gran Khan anche il popolo dei Mohal (i Mongoli o Tartari) sarebbe diventato cristiano e, di conseguenza, si sarebbe alleato con l’Occidente contro le popolazioni musulmane che avevano invaso la Terra Santa e il Nord-Africa fino alla Spagna. Il Gran Khan aveva risposto picche; ma un primo ponte verso la Cina era stato gettato. 

Furono mandate altre due spedizioni formate da frati domenicani, con funzioni di ambasciatori e missionari: Nicola Ascelino da Cremona e Andrea de Lonjumeau. Il primo non venne nemmeno ricevuto dal Gran Khan. Il secondo giunse alla corte mongola quando il Gran Khan Guyuk era morto; tuttavia frate Andrea de Lonjumeau aveva potuto costatare che diversi capi mongolici nutrivano simpatie per il cristianesimo: anzi si era sparsa la voce che lo stesso principe Sartach si era fatto battezzare. 

Il santo re Luigi IX, intrapresa la VII crociata (1248), sentiva il dovere di contribuire alla salvezza delle anime e inviò da Cipro un’altra delegazione capeggiata da Guglielmo, frate francescano di Rubruc, suo fidato amico personale e suo ammiratore già nel regno di Francia. 

Al ritorno da questa missione lo stesso frate Guglielmo stilerà per il Re un esteso e dettagliato resoconto chiamato Itinerarium: si tratta, in un’edizione italiana a stampa, di una narrazione di ben oltre 250 pagine «che per ricchezza di particolari, finezza di osservazioni, vivezza di racconto, ha ben poche opere che la superino in tutta la letteratura di viaggi» (Gian Luca Potestà). 

 Un personalità straordinaria

 Scarne sono le notizie biografiche di questo frate francescano. Nato tra il 1210 e 1215, è sulla quarantina quando inizia il viaggio in Mongolia. L’anno 1255 è l’ultima data citata nell’Itinerarium. Successivamente abbiamo una testimonianza del 1268 di frate Ruggero Bacone (1220-1290) che lo ha conosciuto e stimato e che attingerà dall’Itinerarium molto materiale per il suo Opus Majus. Guglielmo è morto intorno al 1293-95. 

Frate Guglielmo stesso dice di essere di Rubruc (attuale Rubrouk, nelle Fiandre, al confine con il Belgio). Francescano della prima generazione, è fiero e intelligente osservante della Regola di san Francesco di Assisi. Appartiene alla provincia francescana di Siria (Terra Santa). Amantissimo dei suoi confratelli; delicatissimo con frate Bartolomeo suo confratello e compagno di viaggio, afflitto spesso da malattie e scoraggiamenti. Dovrebbe aver frequentato le alte scuole di teologia a Parigi conseguendo il titolo di Magister. Sacerdote: predica, amministra i sacramenti, benedice, scioglie gli incantesimi degli indovini. 

Tempra di acciaio: resistente alle fatiche (XX,6), mangia quando c’è qualcosa da mangiare e quello che c’è da mangiare; cammina scalzo sulla neve e mette delle calzature solo quando rischia il congelamento dei piedi (XXVIII,11). Corporatura massiccia: lui stesso si definisce “ponderosus valde” (XXI,5).

Era dotato di forza psicologica eccezionale. Non mostra mai cenni di scoramento o pessimismo. Molto prudente: affronta coraggiosamente, mai temerariamente, tutti i suoi interlocutori. Aperto verso il diverso, mette da parte gli schemi e le presunzioni di superiorità degli occidentali nei confronti dei popoli che incontra, e finisce per apprezzarne i doni e il fondo del cuore. Gli piace come vestono, cosa mangiano, cosa bevono. Gli piace ascoltarli. Francescano dal tratto affabile, Guglielmo ha grande capacità di comunione con tutti: con i buddisti idolatri, con i nestoriani, con i saraceni, perfino con il Gran Khan. 

Non si vergogna di esprimere le proprie sensazioni e i propri sentimenti. Aldilà della «porta ferrea, fatta costruire da Alessandro Magno» (XIV,3), incontrando i Tartari ed entrando nel loro territorio, ha l’impressione di «entrare in un altro mondo» (I,14; IX,1): tutto è strano e nuovo rispetto a ciò a cui è abituato in Occidente. Guglielmo osserva, si sforza di comprendere, e spesso manifesta lo sgomento di uno che è stato catapultato in un mondo diverso.

Viene a contatto con il buddismo, con monaci e riti. Viene a contatto con gli idolatri, spariti da secoli dal mondo monoteista occidentale: per lui sono una novità: «Lì per la prima volta, vidi degli idolatri e dovete sapere che in oriente ne esistono molte sette» (XXIII,7; XXIV,7; tutto il cap. XXV è dedicato alla descrizione de “i templi degli idolatri, i loro idoli e come essi si comportano con i loro dei”). Annota come siano gli Indovini a prevalere sulle decisioni dell’Imperatore dei Tartari: i quali Tartari «sarebbero tornati in Ungheria già da molto tempo, ma gli Indovini non danno loro il permesso» (XXXV,2).

Ama la liturgia romana, ma sa apprezzare le liturgie cristiano-nestoriane (anche se le vede sbiadite e contaminate, «folli pratiche» - XXIV,1) molto diffuse nei territori che incontra; sa farsi stimare dai sacerdoti nestoriani, dagli armeni e sa anche consigliarli: gli stessi nestoriani si sentono legati al Papa di Roma, anzi, sperano che il Pontefice mandi presto loro un Patriarca. Frate geniale e creativo, cerca i cristiani cattolici dispersi o prigionieri (XXIII,3) e proprio nella capitale dei Mongoli è costretto a inventarsi una meravigliosa e commovente celebrazione della Pasqua: con tanto di liturgia penitenziale, confessioni, assoluzione sacramentale, celebrazione eucaristica cattolica… e questo su richiesta dei nestoriani e dei musulmani e nella stessa struttura di una chiesa nestoriana. 

Devotissimo della Vergine Maria: invitato a presentarsi alla corte di Sartach e a cantare una benedizione, gli viene dal cuore di cantare a squarciagola il Salve Regina (XV,7;); lo stesso farà entrando nella chiesa dei nestoriani (XXVII,1).

Guglielmo è un francescano preparato. Ha molto chiari i contenuti dell’esperienza.e della fede cristiana. Li annuncia, a volte occasionalmente, per strada, e a volte su invito dei Principi stessi. Tutti muoiono dalla curiosità di sapere che cosa va a dire questo frate al Gran Khan: «le parole della fede ed esposi il credo della fede cristiana» (X,5). L’ardore della sua fede è tale che lo stesso Mangu-Khan vorrà ascoltarlo a più riprese e chiederà di fare, nella stessa sua corte, una disputa tra idolatri, saraceni e cristiani sul monoteismo. Tutto il cap. XXXIII dell’Itinerarium è dedicato a questo momento ed è come l’apice dei contenuti della Buona Novella. 

Verso il cuore dell’Impero

Viaggiatori eccezionali, i due frati divorano oltre 17-18.000 leghe: a piedi, a cavallo, su carri trainati dai buoi, sotto il sole cocente, più spesso sotto piogge, nevicate, bufere, tra laghi e fiumi ghiacciati, deserti desolanti, steppe infinite. 

Oltre il fiume Don si apre l’immenso territorio dell’Impero dei Khan fino alla costa del Pacifico e alle porte di Pechino, con un’amministrazione idealmente concentrica. La cintura più esterna ad ovest è governata da Scatatai che vigila sulle vie verso l’interno. Come in un secondo anello verso il centro troviamo la corte di Sarthah: verso questo Principe è immediatamente diretto frate Guglielmo. Le lettere con la richiesta di rimanere in queste terre per poter annunciare il Vangelo, sono dirette a Sarthah: ma è una concessione che Sarthah non può dare senza sentire suo padre Batu (XIX,7). Perciò i due frati vengono inviati alla corte di Batu: questi governa l’anello più interno dell’Impero. Anche Batu sente che si tratta di un’autorizzazione con implicanze importanti, che richiede un’autorità superiore: quella di suo padre Mangu-Khan, il vero Gran Khan di tutto l’Impero (XIX,8). In questo modo i due frati francescani giungono nella capitale Caracorum ad annunciare il Vangelo e a richiedere al Gran Khan Mangu l’autorizzazione a rimanere nella terra dei Mohal. Mangu-Khan, ha un cuore pieno di benevolenza verso i due francescani, ma politicamente è condizionato da altri fattori. Comprende che si tratta di una decisione molto impegnativa e dopo due mesi di permanenza, accommiata i francescani ricolmandoli di benevolenza e di attenzioni e affidando loro delle lettere per il re Luigi IX. Frate Guglielmo rientrerà in Terra Santa nel giugno 1255, con il desiderio di ripartire ancora. 

Un altro ponte, fatto di stima e amicizia, era stato gettato tra l’Europa e l’estremo Oriente. 

Il commiato da Mangu-Khan

Nell’ultima udienza che l’Imperatore dei Tartari concesse ai due frati, Guglielmo osò chiedere il permesso di parlare ancora. Mangu annuì «e (il frate francescano) disse: “Signore, noi non siamo uomini bellicosi e vorremmo che dominassero il mondo coloro che lo governerebbero nel modo più giusto secondo la volontà di Dio. Il nostro compito è insegnare agli uomini a vivere in modo conforme alla volontà di Dio; per questo motivo siamo venuti in queste regioni e saremmo rimasti volentieri se lo aveste voluto. Dal momento che volete che ce ne andiamo, lo faremo; partirò e, per quanto mi è possibile, porterò la vostra lettera, come avete ordinato. Vorrei chiedere però alla Vostra Magnificenza, di permettermi, dopo che avrò portato la vostra lettera, di tornare da voi, sempre che lo desideriate; ve lo chiedo soprattutto perché a Bolat si trovano dei vostri umili servi che parlano la nostra lingua e che hanno bisogno di un sacerdote che insegni a loro e ai loro figli la loro religione. Io mi fermerei volentieri insieme a loro. Mangu-Khan rispose: “Se i tuoi padroni ti manderanno di nuovo da me”. Allora dissi: “Signore, non conosco le intenzioni dei miei padroni, ma mi hanno dato il permesso di andare dovunque voglia, dove è necessario predicare la Parola di Dio e mi sembra che in queste zone ce ne sia proprio bisogno. Perciò sia che il mio signore (Luigi IX) mandi presso di voi ambasciatori oppure no, io vorrei tornare, con il vostro consenso. A quel punto Mangu tacque e per molto tempo rimase seduto come se stesse pensando. Io aspettavo ansioso la risposta; alla fine disse: “Devi affrontare un lungo viaggio, recupera le forze con il cibo per arrivare al tuo paese in buona salute” e ordinò che mi dessero da bere. Poi mi allontanai dal suo cospetto e in seguito non vi tornai più. Se avessi avuto il potere di fare miracoli come Mosè, forse…” (XXXIV,6). 

La lettera di frate Guglielmo al Re di Francia

Frate Guglielmo, rientrato in Terra Santa, scrive al re Luigi IX dicendogli che il Ministro Generale dell’Ordine «aveva stabilito che avrei fatto il lettore ad Acri e non mi diede il permesso di raggiungerVi e mi ordinò di mettere per iscritto ciò che volevo dirVi e di farvelo avere tramite il latore della presente lettera: …Se il Papa, che è il capo di tutti i cristiani, volesse mandare con grande onore un vescovo e replicare alle cose senza senso che i Tartari per tre volte hanno scritto ai Franchi… egli potrebbe dire loro qualunque cosa volesse e anche fare in modo che essi la scrivano. Ascoltano, infatti, qualunque cosa un ambasciatore vuole dire e gli chiedono sempre se vuole aggiungere qualcos’altro…» (Epilogo,1-5).   

In CINA FRANCESCANA, di Rino Bartolini
dal n. 2/2022 della Rivista Porziuncola

 

 



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