Uno degli argomenti più dibattuti nella storiografia francescana è il rapporto di Francesco con la Chiesa. C’è chi ha parlato di Francesco come di una sorta di rivoluzionario, chi invece, non potendo contraddire le fonti, ha cercato la ragione della sua obbedienza alla gerarchia nella sua scelta di vivere nella minorità: sia in un senso che nell’altro, il suo è sempre un atteggiamento visto in un modo che possiamo definire distaccato, estrinseco.
La considerazione dell’importanza della liturgia nella vicenda di Francesco può aiutare a comprendere meglio il suo rapporto con la Chiesa: egli visse l’inserimento, certamente non in modo passivo, in una storia che lo precedeva e che si era espressa anche mediante determinate formule liturgiche. La preghiera e la meditazione di testi a lui precedenti, espressione della vita e della santità della Chiesa lungo i secoli, divennero per Francesco il luogo di comunione con la storia della salvezza.
Proprio per questo egli fu molto determinato contro coloro che non volevano recitare l’Ufficio, come è testimoniato da quanto scrive nel suo testamento: «E sebbene io sia semplice e infermo, tuttavia voglio sempre avere un chierico che mi reciti l’Ufficio così come è prescritto nella Regola. E tutti gli altri frati siano tenuti a obbedire così ai loro guardiani e a dire l’Ufficio secondo la Regola.
E se si trovassero dei frati che non dicessero l’Ufficio secondo la Regola, e volessero variarlo in altro modo, o non fossero cattolici, tutti i frati, ovunque siano, siano tenuti per obbedienza, ovunque trovassero qualcuno di essi, a farlo comparire davanti al custode più vicino al luogo dove l’avranno trovato. E il custode sia fermamente tenuto per obbedienza a custodirlo severamente, come un uomo in prigione giorno e notte, così che non possa essergli tolto di mano finché non lo consegni di persona nelle mani del suo ministro.
E il ministro sia fermamente tenuto, per obbedienza, a mandarlo per mezzo di tali frati che lo custodiscano giorno e notte come un uomo imprigionato, finché non lo presentino davanti al signore di Ostia, che è signore, protettore e correttore di tutta la fraternità».
Tale trafila che si conclude con la consegna al “signore di Ostia”, cioè al cosiddetto cardinal protettore dell’Ordine minoritico, è stata considerata una delle “durezze” di frate Francesco che tanto contrasta con una certa sua immagine irenica; e tale durezza è nei confronti di coloro che non recitano il breviario.
Ciò è dovuto al fatto che quella determinata preghiera, e quindi anche il suo rifiuto, era direttamente correlata all’ortodossia o meno della persona e della comunità. L’assioma lex orandi, lex credendi, lex vivendi lo possiamo constatare vissuto da Francesco e anche ritenuto dallo stesso, anche se non esplicitamente, uno dei riferimenti della sua esperienza cristiana.
La modalità con cui Francesco ha pregato, e che ha voluto fosse anche quella della fraternitas minoritica, ossia la recita del breviario, è espressione della sua fede, quella della Chiesa rappresentata dal pontefice, che si è espressa nel suo vissuto concreto.
Quindi, se si vuole comprendere appieno il vissuto del santo di Assisi e della sua predicazione di pace – con il significato che ha assunto lungo la storia e soprattutto grazie al pontificato di Giovanni Paolo II –, non può essere trascurata la sua fede espressa mediante la preghiera, soprattutto liturgica, e la recita del breviario.
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