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Riflessione in occasione dell’Ottavo centenario della nascita 25 Nov 2017

Viatori sull’itinerario di Bonaventura

La domanda che il Signore rivolse ad Adamo «Dove sei?» (Gn 3,9) lungo i secoli è stata considerata fondamentale per ogni itinerario. Infatti se è vero – come dice una canzone di Claudio Chieffo – che «cammina l’uomo quando sa bene dove andare», ossia è pellegrino e non vagabondo, tuttavia non meno importante è riconoscere la situazione reale di partenza. In questa prospettiva un aiuto può venire dal pensiero di Bonaventura da Bagnoregio il quale davanti all’equivocità del temine “natura” riguardo all’uomo distinse diversi stati della condizione umana.

Innanzitutto prese atto dello status naturae institutae, cioè la realtà al momento della creazione in cui il Signore dopo aver creato l’uomo e la donna vide che «era cosa molto buona» (Gn 1,31), che potrebbe essere tradotto anche con «era cosa molto bella». Quindi in principio c’è una bontà e bellezza nella natura umana che è direttamente connessa con l’essere stata creata dall’Altissimo. Ma il pensiero di Bonaventura è attento alla realtà e quindi prende atto che nell’uomo e nella donna vi è una ferita dovuta al peccato; non è che sia tutto corrotto e marcio – come affermano alcuni volendo enfatizzare il ruolo della grazia – ma realmente ogni essere umano si trova ormai nello status naturae lapsae ossia decaduta dallo stato originario d’innocenza.

L’opera di Gesù ha portato la redenzione mediante la sua incarnazione, passione e morte; la salvezza è già compiuta ma l’uomo e la donna non ancora hanno riconosciuto e preso con se pienamente tale evento. Pertanto si ritrovano nel “già e non ancora”, nello status viae quali viatori. La meta a cui sono incamminati è la condizione di gloria – lo status gloriae – che vedono compiuto nel Risorto e nella Vergine Maria. Ecco come padre Cherubino Bigi ebbe a sintetizzare tale insegnamento bonaventuriano: «Lo status è la situazione esistenziale quale fonte e possibilità di una certa esperienza. Gli “status” principali dell’umo sono quattro: status naturae institutae, status naturae lapsae, status viae, status gloriae. Il primo indica la condizione di integrità, di innocenza e pienezza del primo uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio; il secondo dice lo scadimento o la diminuzione dell’uomo causata dal peccato; il terzo è lo “status” in cui noi siamo inseriti; uomini redenti e itineranti, con opposte possibili direzioni, impegnati e chiamati a scelte possibilizzatrici di salvezza. Il quarto rappresenta la condizione finale, concreta e ideale insieme, del nostro itinerario terreno vissuto con autenticità» [V. C. Bigi, Studi sul pensiero di san Bonaventura, Ed. Porziuncola, Assisi 1988, p. 277-278].

Secondo Bonaventura, quindi, quattro sono le condizioni in cui può trovarsi la natura umana. E qui ritorna la domanda iniziale: dove sei? Certamente non nella condizione di quel «principio» richiamato da Gesù (Mt 19,8) e a cui si è chiamati a guardare per riconoscervi la vocazione primigenia dell’uomo e della donna. E neppure nello status naturae lapsae perché la redenzione di Cristo è già avvenuta; tuttavia non ancora si è nella gloria degli angeli e dei santi. Quindi l’uomo e la donna si ritrovano nello status viae: questa è la realtà concreta dell’uomo storico.

L’individuazione di tale condizione non è certamente una peculiarità di Bonaventura da Bagnoregio. Precedentemente Agostino d’Ippona – in un testo ripreso dalla costituzione conciliare Lumen gentium del Vaticano II [Concilio Vaticano II, Lumen gentium, 8: «La Chiesa “prosegue il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la passione e la morte del Signore fino a che egli venga (cfr. 1Cor 11,26). Dalla virtù del Signore risuscitato trae la forza per vincere con pazienza e amore le afflizioni e le difficoltà, che le vengono sia dal di dentro che dal di fuori, e per svelare in mezzo al mondo, con fedeltà, anche se non perfettamente, il mistero di lui, fino a che alla fine dei tempi esso sarà manifestato nella pienezza della luce»] – ricordava che «in questo tempo, in questi giorni malvagi, non solo dal periodo della presenza corporale del Cristo e dei suoi Apostoli, ma dallo stesso Abele, il primo giusto ucciso dal fratello scellerato, e di seguito fino alla fine del tempo la Chiesa si evolve pellegrina fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio» [Agostino, Della Città di Dio, XVIII, 51, 2: PL 41,614].

Anche Gregorio Magno nel Commento al libro di Giobbe ebbe a dire che i credenti sono come l’aurora perché hanno già lasciato le tenebre del peccato ma non ancora sono nella piena luce del giorno: «L'aurora infatti o il primo mattino annunziano che è trascorsa la notte, e tuttavia non mostrano ancora tutto lo splendore del giorno; ma mentre cacciano la notte e accolgono il giorno, conservano la luce mescolata con le tenebre. Che cosa dunque siamo in questa vita noi tutti che seguiamo la verità, se non l'aurora o l'alba? Poiché facciamo già alcune opere della luce, ma in alcune altre siamo ancora impigliati nei rimasugli delle tenebre» [Gregorio Magno, Commento al libro di Giobbe, XXIX,2-4: PL 76,478-480].

Il cardinal Carlo Maria Martini esplicitò maggiormente tale condizione di viatori affermando: «È così che capisco la verità su me stesso: è come un prendere coscienza del proprio egoismo e della propria fragilità, che fa cadere l’ingenua magia di pensare che bastino le buone intenzioni per cambiare il mondo e la vita. C’è veramente una differenza stridente fra l'altezza dei buoni propositi e la presenza del male e dell'egoismo in ciascuno di noi: forse è questo ciò che Dostoievski chiamava “l’abisso dei doppi pensieri”. Fai qualcosa di bene e t’accorgi che dentro il tarlo del tuo io non ti abbandona. T’accorgi che è sempre grande la potenza del peccato. Gli alti e i bassi si susseguono con un’impressionante frequenza: e non solo sul piano psicologico, ma su quello più profondo delle scelte del cuore, degli orientamenti della vita» [C. M. Martini, La regola di vita del cristiano, Gribaudi 2000].

Si tratta di vivere in quella “tensione della perfettibilità” che Emanuel Mounier così espresse: «È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia […] e il sentimento paziente di un'opera che cresce, di tappe che si susseguono, aspettate con calma, con sicurezza […]. Occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina, ma nasca dalla carne» [E. Mounier, Lettere sul dolore. Uno sguardo sul mistero della sofferenza, Rizzoli, Milano 2011].

Benedetto XVI, nella cui formazione un ruolo non secondario ebbe lo studio del pensiero di Bonaventura, a proposito dell’ermeneutica con cui è stato letto il concilio Vaticano II disse: «È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma» [Benedetto XVI, Discorso alla Curia romana (22 dicembre 2005)]; successivamente precisò che «coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a una luce ricevuta» [Benedetto XVI, Caritas in veritate, 12].

Alla luce dell’insegnamento di Bonaventura l’espressione ecclesia semper reformanda est acquista una pregnanza particolare perché individualmente e comunitariamente si è chiamati a riconoscersi viatori che percorrono l’itinerario del loro pellegrinaggio senza cadere né nell’illusione utopistica di credersi arrivati e neppure nello scoraggiamento delle varie prove e fallimenti. Forse è proprio per questo che l’ordine dei frati Minori, ma anche i francescani in genere, nei periodi di difficoltà – come ad esempio dopo le varie soppressioni – per riprendersi tornarono al teologia e spiritualità di san Bonaventura [B. Faes, Bonaventura da Bagnoregio, Biblioteca Francescana, Milano 2017].

 

Testo di p. Pietro Messa OFM, della Pontificia Università Antonianum, scritto per “San Bonaventura informa



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