Salvatore da Horta (1520-1567) sbalordisce per i suoi innumerevoli miracoli, tanto da diventare l’anti-Lutero della controriforma iberica. Sepolto a Cagliari, eleva l’isola a centro religioso del cattolicesimo mediterraneo, poi, viene completamente dimenticato, quindi, riscoperto e, in tempi rapidissimi, elevato alla gloria degli altari come taumaturgo sardo delle febbri e intercessore della Spagna franchista. È soprattutto una Sardegna alla ricerca dell’autonomia e schierata in difesa della sardità a promuoverne il culto! I sardi si rispecchiano in un marginale, illetterato e idiota, che risana la loro identità, infiacchita dalla depressione malarica. Quali i motivi culturali, sociali, economici, ambientali e sanitari alla base della reinvenzione contemporanea di una tradizione controriformistica?
Segue la scheda Colagé “Il Guaritore dell’identità fiaccata dalla malaria” per chi volesse approfondire:
La correlazione tra medicina, antropologia, società e religione trova, nel caso della Sardegna – isola malarica, un banco di lavoro ideale per osservare come su una crisi sanitaria si innesta una problematica che va ben oltre la dimensione tecnico – scientifica, interessando questioni di ordine antropologico-identitarie di una popolazione, che dopo l’unità d’Italia stenta a trovare la sua collocazione nei quadri di una nazione in corsa verso la modernità, fissata dagli standard europei. Infatti, la soluzione del problema malarico adottata teconocraticamente con la disinfestazione della campagna Rockefeller, durante il primo dopoguerra, non solo non risolve la questione sarda, ma addirittura la complica sia sul piano sociale, sia sul piano economico, sia, infine e soprattutto, su quello culturale.
Lo studio del fenomeno taumaturgico legato alla figura di Salvate da Horta, morto nel XVI secolo, riscoperto alla fine dell’ottocento e canonizzato nel 1938, dà modo di tenere insieme la problematica sanitaria, quella sociale, quella culturale e quella identitaria, dimostrando una interdipendenza che sfugge a numerosi studi sulla identità sarda, che sovente si concentrano su un aspetto tralasciando invece gli altri. Esso giunge alla conclusione che la cifra religiosa alla redice della cultura e dell’antropologia sarda, costituisce come il prisma che filtra tutte le altre componenti, non esclusa quella più prettamente scientifica e tecnica. L’esame statistico delle guarigioni compiute da Salvatore da Horta dimostra infatti un adeguamento puntuale del religioso alla crisi sanitaria isolana: il santo passa infatti dal guarire le febbri più disparate agli interventi sulle puerpere – partorienti, al quelli sui bambini, guarendoli da patologie infantili, prodotte dal sostrato malarico materno.
Salvatore, cui viene intitolata una clinica ostetrico pediatrica e traumatologica, salva però non soltanto da patologie fisiche, bensì da patologie sociali e culturali. La depressione malarica, che fa dei sardi dei rinunciatari e quindi del marginali sul piano socio-politico, come già l’antica accidia oggi melanconia, necessita di cure offerte tramite un processo di riconoscimento. I sardi guariscono perché si riconoscono in un marginale, illetterato e idiota, come è appunto Salvatore da Horta, il quale però, a sua volta, riceve riconoscimento politico e sociale, oltre che religioso, grazie alla canonizzazione, quando Roma si inchina di fronte alla Sardegna. Se la narrativa sarda dei Lussu, Pigliaru, Deledda tenta un riscatto della Sardegna tramite l’emancipazione letteraria, Gemina Fernando, riconosce nell’illetterato Salvatore, la forza taumaturgica del marginale, che nella idiozia si dimostra significativo.
È la conclusione cui perviene l’opera! “La penna che credevo retaggio di pochi privilegiati, imprigiona anche me nei suoi fili di inchiostro”. L’impatto con la “Verità” ignota alla carta vergata, convince la Fernando a chiedere la liberazione dalla prigione di inchiostro, modernità incapace di tener fede alle proprie promesse: “Frate Salvatore, salvami da questo bagaglio che mi pesa come una condanna, fa ch’io più non lo porti, ma vi cammini sopra senza vederlo, non più curva sotto di esso, ma eretta di fronte al cielo, illuminata da quel Sole che splende più del sole”.
A Salvatore da Horta, Gemina chiede infine il miracolo della vista, onde poter riconoscere il “Vero”, che ha caratteristiche sì religiose, ma anche isolane. È infatti un vero che supera sì le frontiere di quel mondo infinito, che si apre per Gemina al di là della cinta isolana, nel percorrere la penisola al seguito del padre avvocato. È però anche un vero della tradizione popolare sarda, cui ritorna la novellista scrivendo, a vent’anni dall’incontro con il taumaturgo sardo, quell’inno al carattere fiero del popolo isolano “Il cuore ribelle della Shardana”, che chiosa la sua esistenza letteraria: “Taumaturgo, ti dicono, perché operi miracoli. E io ti domando anche per me un miracolo. Tu che ai ciechi rendi la vista, allontana dai miei occhi la nebbia che mi nasconde il Vero”.
Giuseppe Buffon Libro San Salvatore da Horta Sardegna
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